Il partito dei giudici è ormai convinto di essere la prima formazione italiana. Più importante di quelle che siedono in Parlamento. E rivendica l'egemonia sulla società. A parlare, questa volta, è il vicepresidente del Csm Michele Vietti, di solito moderato nei toni. Ma questa volta, da Stresa dov'è per un convegno, l'avvocato torinese recapita alla classe dirigente del Paese un messaggio che si legge come un proclama: la magistratura ha l'ultima parola sulla politica, i giudici hanno bruciato sul tempo il Parlamento nella corsa a colpire Berlusconi, la condanna del Cavaliere non è un evento particolarmente clamoroso. Ma, par di capire, ordinaria amministrazione. Concetti espressi con un piglio garibaldino e che provocano un coro di reazioni sdegnate nel centrodestra.
Va diritto al punto Vietti, politico di lungo corso prestato dall'Udc a Palazzo dei Marescialli, a suo tempo sottosegretario alla Giustizia proprio nel governo Berlusconi. «Lo dico in maniera asettica - spiega il vicepresidente - ma vedo che ancora una volta la magistratura è arrivata prima della politica». Il riferimento è alla notizia del giorno: la corte d'Appello di Milano ha appena ricalcolato gli anni, due, dell'interdizione di Berlusconi dalla politica attiva. Il tema è esplosivo, ma lui lo maneggia con una certa disinvoltura, anzi sembra ignorare che il momento particolare, delicatissimo, imporrebbe una dose supplementare di prudenza, a maggior ragione per un rappresentante delle istituzioni come lui. Niente, forse Vietti avrebbe preferito che fosse il Senato ad accompagnare a bordo campo il Cavaliere e invece il vice di Napolitano deve riconoscere che le toghe sono state più veloci. Anche se si dovrà aspettare il passaggio in Cassazione per chiudere la partita. Un po' di pazienza, ma va bene così. «In un Paese democratico - insiste Vietti - in cui vige la separazione dei poteri l'ultima parola spetta al giudice. Se così non fosse non vivremmo in un Paese civile, ma nella giungla, in cui vige la regola del più forte e in cui ognuno è giudice e arbitro delle proprie responsabilità». Forse Vietti vuole solo sottolineare l'ovvio, il fatto che le sentenze vengono emesse dai giudici, ma il risultato finale è quello di una lezione davvero indigeribile di democrazia giudiziaria. Il Paese è spaccato sulla decadenza del Cavaliere, sulle contraddizioni della legge Severino e sulla composizione di un problema che è giudiziario ma anche politico e lui lo risolve nel segno della magistratura e sulla sola base di un verdetto. Che secondo lui ha il pregio di liquidare in modo chiaro il Cavaliere. Il tutto senza scomporsi, anche perché «la condanna di Berlusconi non mi pare sia una notizia particolarmente eccezionale».
Ma sì, il centrodestra perde il suo leader e milioni di elettori il loro punto di riferimento, ma questi sono dettagli. A quanto si capisce dalla requisitoria, la politica ha la colpa di non aver anticipato la magistratura e di non aver espulso senza indugio il Cavaliere dal Parlamento.
«Vietti - replica Daniela Santanchè - fa finta o si dimentica che in Italia una parte della politica e una parte della magistratura sono la stessa cosa». Insomma, un pezzo del Parlamento e uno spicchio della magistratura sono contigui e giocano di sponda, a danno degli avversari. Ancora più dura Mara Carfagna: «Basta con queste assurde e ridicole tesi negazioniste. L'Italia, oggi più che mai, è una nazione a sovranità limitata. Questa non appartiene più al popolo ma a una minoranza di un ordine che si è fatto potere politico, e lo gestisce con le armi della coercizione legale».
Infine Sandro Bondi.
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