Ma che noia il festival al sapore di salsa rubra

La competizione canora è un pretesto per concimare il terreno dove cresce la pianta del conformismo, che fa rima con comunismo, buonismo, progressismo

Ma che noia il festival al sapore di salsa rubra

Confermato. Il Festival di Sanremo ha sostituito, fuori stagione, il compianto (dai compagni) Festival dell'Unità. Un duro colpo all'evoluzione della specie. Tutte le critiche della vigilia si sono dimostrate legittime e fondate: la competizione canora ormai è un pretesto per concimare il terreno dove cresce la malapianta del conformismo, che fa rima con comunismo, buonismo, progressismo.
Tutto il repertorio della sinistra d'avanspettacolo, che ha soppiantato definitivamente le prediche inutili degli intellettuali organici d'antan, è stato sfoderato già nella prima serata. Era scontato che le cose andassero così. Bastava dare un'occhiata ai conduttori in cartellone per immaginare il tono melenso della recita. Fabio Fazio: un nome, una garanzia di banalità. Compìto come un chierichetto, nonostante la lunghezza mortifera del programma, è riuscito a non fare neanche un goccio di pipì fuori dal vasino: non un guizzo, non una battuta salace, manco uno starnuto.

Solo un brivido quando Maurizio Crozza si è presentato in scena - attesissimo - nel doppiopetto di Silvio Berlusconi, sempre lui (che palle!), e una pur esigua parte del pubblico non si è limitata a sbuffare, come buona creanza avrebbe consigliato, ma si è lasciata andare ad apprezzamenti volgarotti del tipo: vai a casa tua!
L'imitatore, abituato ad applausi compiacenti, colto di sorpresa dai fischi ha vacillato. Si è avuta l'impressione che fosse sul punto di rinunciare al numero, poi invece si è ripreso e ha concluso il proprio lavoretto ripetitivo (d'altronde il Cavaliere in versione originale è, quanto a vis comica, assai più dotato di lui). Per il resto, il trantran e il trullallerotrullalà è proseguito pigramente sino a notte inoltrata con discreti effetti soporiferi.
Fazio, coadiuvato da Luciana Littizzetto (quella che «ha rotto il cacchio»), non ha tradito il canovaccio oratoriale che lo ha reso famoso e gradito alle mamme d'Italia. E, per essere spiritoso, si è inventato il coro dell'Armata Rossa allo scopo di accompagnare Toto Cutugno: un accostamento stridente e grottesco, ma in linea con lo spirito del nuovo Festival in salsa rubra.

La sottocultura progressista è stata ben rappresentata: le imitazioni satiriche, l'esibizione dei due gay, le gag della Littizzetto e le canzoni con «messaggio» psico-sociale. Per completare il quadro, è mancata solamente una massiccia partecipazione di estremisti islamici, ma non perdiamoci d'animo: prima o poi il chierichetto colmerà la lacuna. Non ci si può accontentare di un po' di retorica sull'integrazione degli stranieri in Italia.

Ora c'è da chiedersi se avesse ragione chi suggeriva di rinviare la data del Festival per non farlo coincidere con la penultima settimana (calda) della campagna elettorale. Indubbiamente, la noia canora, occupando i teleschermi per ore e ore ogni sera, oscura la politica in un momento di particolare delicatezza, ma, avendo visto all'opera Fazio e compagni, non crediamo che essi siano in grado di danneggiare o favorire un partito. Si tratta di figuranti obbligati per contratto a essere sciapi.
Piuttosto non si capisce perché una kermesse tanto modesta e logora debba essere spalmata su cinque serate. Due sarebbero già troppe. Meglio una o addirittura zero.

Se la televisione è lo specchio della realtà, non c'è da stare allegri: siamo ridotti a rimpiangere i dibattiti elettorali. Più divertenti. E se la società civile è quella di Sanremo, ridateci i politici, anche ladri. Preferiamo loro agli sciocchini.

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