Quella che sto per scrivere non è una difesa tecnica di Marcello Dell'Utri, le cui vicende - alla grossa - sono note. Domani sarà giudicato dalla Cassazione. Su di lui incombe una condanna a 7 anni di prigione che, se fosse confermata dalla Corte suprema, dovrebbe essere scontata dietro le sbarre, presumo, e non ai servizi sociali. Il processo in questione non si può dire che sia stato veloce: cominciò nel 1994. Vent'anni per giudicare un uomo? Viene da pensare che sulla sua effettiva colpevolezza non vi fossero né vi siano molte certezze. Ma questo non stupisce nessuno: in Italia usa così. Andiamo oltre. Con l'avvicinarsi del giorno decisivo, martedì 15 aprile, l'imputato - sul quale pesa l'aggravante di essere stato cofondatore di Forza Italia - se n'è andato a Beirut. Lui dice per motivi di salute. Difficile credergli. Il sospetto che non abbia nessuna voglia di finire in galera mi sembra più credibile. Ma come si fa a dare torto a Dell'Utri se da quattro lustri vive nell'angoscia, sbatacchiato da un tribunale all'altro e con la prospettiva del gabbio?
Sulla sua persona tira un'aria cattiva, che è poi la stessa aria fetida che si respira intorno a Forza Italia da quando Silvio Berlusconi è stato incastrato. Altra storia inquietante, quella del Cavaliere. Costui è probabilmente l'unico riccone condannato per frode fiscale pur essendo - in un Paese detentore del record mondiale dell'evasione fiscale - fra i primi contribuenti. Un bel mistero. Pensare che Gianni Agnelli, il compatriota più ammirato, lodato, invidiato e imitato, benché denunciato dalla figlia («papà portò all'estero un pacco di milioni»), è deceduto nel suo letto, mai sfiorato dagli artigli giudiziari. Rallegramenti postumi. Ma torniamo a Marcello mica tanto bello. Parecchia gente esulta perché è stato beccato in un hotel - definito «di lusso» dai media con una punta di compiacimento - e, quindi, non la farà franca. Mah. Ho la sensazione che, invece, egli non sarà costretto a rientrare qui scortato dagli agenti. È vero che esiste l'istituto dell'estradizione, per cui il Libano, su richiesta di Roma, sarebbe teoricamente tenuto a restituirci Dell'Utri qualora la sentenza della Cassazione fosse di condanna. Ma è altrettanto vero che il patto bilaterale sottoscritto dalle due nazioni risale ai primi anni Settanta, quando il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non figurava nel nostro codice. Trattandosi di crimine vago e indefinibile, fra l'altro, è improbabile che le autorità di Beirut lo riconoscano valido ai fini della stessa estradizione.
D'altronde, perfino i libanesi, che non sono maestri di diritto, si renderanno conto che il concorso esterno è qualcosa di astratto per non dire assurdo. O sei mafioso o non lo sei. Non si sono mai visti - per esemplificare - un rapinatore che non ha mai rapinato, un ladro che non ha rubato, un fumatore cui fanno schifo le sigarette, un alcolizzato astemio. Dato che l'Italia è la culla del diritto e del rovescio, si è inventata, viceversa, il concorso esterno nelle attività mafiose. Che cosa significa esterno? Altro paragone: può esserci una donna che aspetta un bambino, ma non è incinta e non ha avuto rapporti intimi con un maschio? Sono persuaso che ragionamenti di questo tipo non stiano in piedi e non siano accettati neppure in Medioriente, dove pure ne accadono di tutti i colori.
Cosicché scommetterei che Dell'Utri trascorrerà il resto della vita - che gli auguro lunga e meno tribolata di quella che gli è toccata nell'ultimo ventennio - in Libano, altrimenti si sarebbe guardato bene dal recarvisi. Di Marcello è lecito dire di tutto tranne che sia scemo e imprudente. Sa quello che fa. E anche nella presente circostanza si sarà mosso con ogni cautela ovvero senza calpestare una buccia di banana o di cedro. Ora, sono consapevole che il dovere di un cittadino è quello di non eludere i rigori della giustizia: chi è condannato, o è sul punto di esserlo, è tenuto a starsene lì fermo e pronto a qualsiasi punizione. Ma è pure noto che un uomo in procinto di subire un'onta è spinto da un insopprimibile impulso a salvarsi e, pertanto, a tagliare la corda. Dell'Utri l'ha tagliata e mi stupisco - pur ammirandolo - che Berlusconi a suo tempo non abbia fatto lo stesso, posto che il suo destino era segnato.
Non sono in grado di affermare che Marcello sia mio amico. Lo conosco. Negli anni Novanta lo incontrai alcune volte. Non interferiva minimamente nella conduzione del Giornale che dirigevo. Non osò mai chiedermi un favore di tipo giornalistico: appoggia questo o vai contro quello. Nell'eventualità lo avrei mandato al diavolo. Però ogni 15 giorni organizzava un pranzo «pubblicitario», per così dire, ossia finalizzato a mettere attorno al tavolo di un ristorante una decina di imprenditori, ai quali poi chiedere di diventare inserzionisti del mio (della famiglia Berlusconi) quotidiano. Mi sentivo costretto a partecipare a quei convivi. Al termine di ogni pasto, intrattenevo i commensali danarosi allo scopo d'indurli a sganciare. Esaurito il mio pistolotto, arrivava un funzionario, tale Bolis, che col cappello in mano faceva la questua. Ero imbarazzato. Mi risulta che l'incaricato di raccogliere denaro non raccattasse manco una lira. Questo racconto l'ho fatto in tribunale, quale testimone, in uno dei tanti processi con imputato Dell'Utri. Roba da matti. Il giudice presidente, udendo le mie parole, non riusciva a reprimere qualche risatina. Anni più tardi, con Marcello e Daniela Santanchè fui sul punto di acquistare una società di calcio, il Como, che era ed è in serie C.
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