Cominciò tutto vent'anni fa, quando IlSabato pubblicò su Antonio Di Pietro il più iconoclasta dei dossier. Pagine e pagine che grondavano prestiti in denaro, telefonini garçonnière, Mercedes e cavalli. La grande stampa, invece di andare a verificare le crepe aperte nel monumento nazionale, sbadigliò ed emise un verdetto lungo appena una parola: veleni. Era tutto vero, o quasi, ma questo non interessava. Pigrizia e ipocrisia vanno a braccetto e tutte e due poggiano su una grande piattaforma lessicale da cui si possono pescare facilmente formule politically correct per umiliare l'avversario. Se il Giornale denuncia l'esasperante lentezza di un magistrato che deve ancora scrivere le motivazioni della sentenza di condanna di uno stupratore ed è stato invece rapidissimo nello spiegare la condanna del Cavaliere, quella è la macchina del fango.
Se tre pentiti prendono le difese di qualche leader del centrodestra, allora siamo agli schizzi di fango. Parenti stretti della macchina del fango. Se invece un gip dispone di interrogare tutti i collaboratori di giustizia che potrebbero sapere qualcosa delle frequentazioni mafiose di Renato Schifani, questo non è accanimento giudiziario ma, controllo di legalità. Ci mancherebbe.
L'Italia è divisa in due. E per entrare dalla parte che conta, ci vuole anche un passaporto linguistico. Bisogna usare i codici, gli stilemi e le parole passepartout dei soloni della Repubblica e del Fatto quotidiano e dell'Unità e di tutti quelli convinti di essere gli eredi di Indro Montanelli e prima di lui di Gramsci, di Gobetti, di Mazzini e pure dell'Illuminismo. Perché gli altri, quelli che più o meno razzolano nel perimetro di quel ghetto chiamato centrodestra, sono l'Italia alle vongole, l'Italia cafonal e caciarona in bilico fra rumorosi e goffi picnic anni Cinquanta e feste fuori misura alla fratelli Vanzina.
Ha ragione Francesco Merlo su Repubblica: «Oggi l'eversione è l'inversione dei significati più semplici». Il problema è capire chi ha capovolto il mondo e ha trasformato il vocabolario in un tapis roulant su cui corrono le bugie.
Antonio Esposito fa a pugni con la lingua italiana in un'intervista spericolata che sarebbe un pezzo cult per Techetechetè. Niente: resta per i giornali e le tv il giudice impermeabile, austero, tutto d'un pezzo. Se la casta non l'avesse portato quasi in cima alla piramide degli ermellini l'avrebbero abbattuto come un albero malato. Il suo italiano zoppo, il suo andirivieni fra Roma e Sapri, i suoi affarucci nella microuniversità, con tanto di numero del cellulare ben esposto in bacheca, ne avrebbero fatto un bersaglio ideale. Il prototipo di quegli italiani col piede più veloce di Maradona nel correre da una scarpa all'altra, alla Scilipoti.
Del resto quelli che hanno compiuto il percorso da sinistra a destra, i Razzi e gli Scilipoti, sono diventati, nella lingua comune, quasi dei proverbi, più che macchiette maschere vere e proprie della commedia dell'arte. Gli altri, quelli che da destra sono andati a sinistra, hanno acquistato il profilo di politici inquieti, pronti a perdere tutto pur di non smarrire la libertà e uscire finalmente dalla cappa soffocante del partito di plastica. Il partito padronale del Cavaliere.
I giudici che condannano Berlusconi ascendono in automatico: Marco Travaglio disegna le tavole di un'epopea e attribuisce a Esposito «un coraggio da leoni». Il leone di Sapri, dopo la Spigolatrice. Se Berlusconi denuncia le troppe inchieste è un eversore, il Caimano. Le parole, a seconda di come le si torce, certificano la gogna o sono lo scivolo giusto per atterrare sulla sabbia della standing ovation. Se il governo balbetta di voler scrivere una norma sulle intercettazioni, allora siamo alla legge bavaglio, allora suonano le campane dell'indignazione e Repubblica colora di giallo lo spazio dell'informazione a rischio. Se i pm si mettono di traverso ad una nuova norma e la boicottano quella è difesa della legalità contro la voglia di impunità.
Se un giudice spedisce alla Consulta una norma è per smascherare qualche legge ad personam, se invece si solleva il tema dell'incostituzionalità della Severino, vuol dire che si sta cavillando per tirarla in lungo. Così il linguaggio rivernicia antiche frustrazioni e si chiude come una saracinesca sulla realtà.
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