Una miscela di rivalità professionali, politiche e financo personali, che da anni segna ormai in profondità la procura della Repubblica di Milano: è questo il contesto in cui è diventata possibile una iniziativa dirompente come quella di Alfredo Robledo, procuratore aggiunto e capo del pool anticorruzione, che accusa il capo Edmondo Bruti Liberati di violare le regole di funzionamento della Procura. Di mugugni e brontolii, in un organismo complesso come la procura milanese, ne sono circolati sempre in quantità. Ma sempre sotto traccia, e sempre tutelando all'esterno una immagine di apparente unità dell'ufficio.
Invece ora la mossa di Robledo porta allo scoperto divisioni profonde. Sarebbe stato impensabile che una iniziativa del genere avvenisse ai tempi in cui Francesco Saverio Borrelli, dall'alto di un carisma oggettivamente inarrivabile, governava la procura con pugno di ferro, parlando con tutti, ascoltando tutti, ma poi decidendo con fermezza e in modo inattaccabile. Quando il capo decideva, i pm - anche i più testardi, come Antonio Di Pietro e Ilda Boccassini - abbozzavano.
Sono passati più di vent'anni, e il clima è radicalmente cambiato. Un passaggio cruciale è stata la nomina a procuratore della Repubblica di Edmondo Bruti Liberati, leader storico di Magistratura democratica, che quattro anni fa sconfisse nella corsa al vertice un conservatore come Ferdinando Pomarici: ma, paradossalmente, lo sconfisse grazie al l'appoggio decisivo in senso al Csm da parte del centrodestra. Ne uscì una nomina bipartisan, che di fatto ha costituito in questi anni la forza ma anche la debolezza di Bruti, accusato spesso e volentieri dagli ultra-giustizialisti di una gestione dell'ufficio troppo attenta alle esigenze della politica.
Questa debolezza esterna ha condizionato una gestione per il resto complessivamente efficiente e si è inevitabilmente riverberata anche negli equilibri interni della procura. In una serie di posizioni chiave della giustizia milanese si trovano in questo momento esponenti di Magistratura democratica: oltre a Bruti, sono di Md il capo del pool reati finanziari Francesco Greco, il vice capo dell'ufficio gip Claudio Castelli, molti dei presidenti di sezione del tribunale civile e penale. Si aggiunga che Ilda Boccassini, anche lei procuratore aggiunto, non fa più parte da molti anni di Magistratura democratica, ma è oggi in ottimi rapporti con Bruti che ha più volte esplicitamente preso le sue difese. Insomma, esisterebbe una sorta di "cerchio magico" da cui alcuni magistrati di esperienza si sentono, a torto o a ragione, esclusi. Robledo, (esponente della corrente più moderata, quella di Magistratura indipendente) non fa mistero da tempo della sua scontentezza.
Difficile, se si esaminano i casi uno per uno, stabilire chi ha ragione e chi ha torto: la mancata assegnazione a Robledo dell'indagine Sea appare oggettivamente ingiustificata, mentre più comprensibile è che l'inchiesta Ruby ter sia stata affidata, anziché a Robledo come avrebbero previsto gli automatismi, a un procuratore aggiunto come Piero Forno, che conosce già perfettamente tutta l'inchiesta sull bunga bunga. Ma anche Forno è di Magistratura democratica, e così anche la scelta sul caso Ruby ha rinfocolato le polemiche interne.
Non è, si badi, un problema di rigore investigativo o di antiberlusconismo più o meno acceso: basti pensare che il conservatore Robledo ha al suo attivo l'avvio dell'unica inchiesta contro Berlusconi approdata alla condanna definitiva del Cavaliere, quella sui fondi esteri sfociata nel processo per i diritti tv. La vera spaccatura passa invece nelle visioni giuridiche ma anche nelle solidarietà di corrente, figlie di comuni appartenenze culturali e a volte politiche. E poi, dentro un microcosmo come quello della procura milanese, affollato di personalità forti e dall'ego spesso ingombrante, finisce giorno dopo giorno anche con il logorare i rapporti umani.
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