Così il totem dell'austerity ha messo la Ue in ginocchio

La crisi ha stremato la nostra economia per colpa del rigore voluto dalla Germania che ha arricchito solo Berlino

Così il totem dell'austerity ha messo la Ue in ginocchio

Superate le elezioni in Germania, e avvicinandosi le elezioni europee, siamo alla resa dei conti. E se c'è il rischio concreto che i movimenti anti-Europa tedesca trovino ampia affermazione nell'imminente rinnovo del Parlamento europeo è perché la verità sulla crisi che ha portato allo stremo le economie dei paesi dell'Eurozona comincia finalmente a venire a galla. Da quando c'è l'euro, la Germania ha accumulato vantaggi rispetto agli altri Paesi europei, specie del Sud, soprattutto in termini di esportazioni e, quindi, di bilancia dei pagamenti. Come ha esportato i suoi prodotti fin dai primi anni 2000 la Germania? Finanziando i Paesi che li acquistavano. È così che le banche tedesche si sono ritrovate, quindi, a finanziare le bolle immobiliari in Spagna, in Irlanda e soprattutto negli Stati Uniti. Non a caso, la prima banca a dover richiedere il salvataggio a seguito della crisi dei mutui subprime negli Usa non è stata l'americana Lehman Brothers (fallita nel settembre 2008) né la britannica Northern Rock (settembre 2007), ma la tedesca Ikb Deutsche Industriebank (luglio 2007). Basta allora dire che la Germania paga le inefficenze e gli sperperi dei Paesi indebitati del Sud Europa. Quello che è successo negli anni della crisi è esattamente il contrario: sono stati i Paesi considerati «deboli» a vedere distrutte le proprie economie per salvare il sistema bancario tedesco, i cui problemi interni tra marzo e maggio del 2011 stavano per compromettere la solidità delle finanze pubbliche in Germania. Il calcolo è stato recentemente aggiornato: 500 miliardi di euro. Un vero e proprio drenaggio di risorse finanziarie dai paesi del Sud a quelli del Nord Europa. A scapito dei cittadini. Non ci stupiamo, allora, se tra le popolazioni si diffondono sentimenti anti-Europa tedesca, e se chi si farà interprete di questi mood otterrà non pochi seggi nel prossimo Parlamento europeo. Quando, nel 2008, scoppia la grande crisi economica e finanziaria, si apre un dibattito sul fatto che la gran parte degli economisti e delle istituzioni internazionali non l'avessero prevista. Negli anni successivi, al contrario, tutto quello che era prevedibile accadesse nell'economia mondiale è stato previsto. Perché è il frutto atteso delle politiche di risposta alla crisi adottate nei principali Paesi del mondo, tanto delle politiche corrette quanto delle politiche sbagliate.

La politica macroeconomica europea, di cui oggi ben pochi non riconoscono gli effetti negativi, deriva anche da teorie economiche inconsistenti, che sono state alla base delle ricette sbagliate con cui la Commissione europea ha affrontato la crisi. Quanti sono coloro che negli anni passati hanno difeso la tesi dei cosiddetti effetti non keynesiani delle politiche restrittive? L'idea era che le politiche di bilancio restrittive avrebbero determinato, riducendo l'assorbimento di risparmio da parte degli Stati, una diminuzione dei tassi d'interesse, favorendo gli investimenti. E che le famiglie, rassicurate circa una riduzione futura delle tasse, avrebbero speso di più e risparmiato di meno. L'erroneità del ragionamento stava nell'ignorare il contesto. In piena crisi, i tassi di interesse erano già sostanzialmente crollati, il reddito delle famiglie, già colpito da crisi e tasse, poneva un vincolo di liquidità nei consumi, e in ogni caso i Paesi più in difficoltà non avrebbero usufruito in un periodo di recessione del traino della domanda estera, che invece ebbe un ruolo fondamentale nell'aggiustamento tedesco. Studi condotti dal Fmi hanno già da oltre un anno dimostrato che gli effetti recessivi di questa politica sono stati sottovalutati per un errore dei coefficienti di moltiplicazione utilizzati per stimare ex-ante tali effetti. Dietro la politica di austerity vi è un errore di teoria economica ancora più di fondo. L'idea è che la compressione della domanda nei Paesi che hanno problemi di competitività determini una riduzione di salari e prezzi, ripristinando in tal modo la loro competitività e la crescita economica. Si tratta dell'idea che si viva in un mondo ideale di mercati perfettamente competitivi e con prezzi e salari completamente flessibili.
Cercare la competitività non con riforme liberalizzatrici specifiche dei mercati, ma con compressione della domanda interna, porta a una riduzione di prezzi e salari solo attraverso una riduzione costosa della produzione e un forte aumento della disoccupazione. Si può generare in tal modo un processo difficilmente controllabile di deflazione e stagnazione da cui è difficile uscire. Questa è esattamente la situazione in cui oggi si trova l'Europa, ed è il pericolo percepito chiaramente anche dalla Bce. Quando i prezzi scendono, invece di salire, i debitori sono in difficoltà e nessuno chiede credito per investire in attesa di rendimenti futuri. Quel che fa paura è che le cattive idee, seppur denunciate dai fatti, producono danni irreparabili e non si estirpano facilmente. Quel che fa paura non è il fatto che lo scorso anno il governo Monti abbia ratificato il fiscal compact, ma che dietro vi sia l'adesione concettuale a queste idee sbagliate. In un'economia globalizzata, l'idea di condurre politiche unilaterali (come quelle imposte dalla Germania) che danneggiano la comunità internazionale producono sempre esternalità negative che poi si ritorcono alla lunga anche sui Paesi che le hanno prodotte. È questo il quadro congiunturale entro cui, purtroppo, sono maturate le scelte sia strategiche sia di breve periodo dei governi delle principali economie europee nel corso del 2013. Un quadro caratterizzato da poche luci e molte ombre, ma che, soprattutto, evidenzia come l'incertezza e i problemi strutturali dell'economia europea permangano a 6 anni dalla grande crisi.

Un quadro che spiega anche la necessità di una battaglia politica. Il rischio non è solo quello della disintegrazione dell'Unione monetaria e dell'Unione europea, ma quello di trascinarla in uno scontro frontale con gli interessi delle altre grandi economie del mondo. Gli Stati Uniti hanno lanciato in diverse occasioni negli ultimi mesi più di un segnale in tal senso, dimostrando di avere nei confronti dell'Europa tedesca la stessa insofferenza che hanno le popolazioni degli Stati dell'Unione. Il prossimo Parlamento europeo, pertanto, dovrà farsi interprete di queste difficoltà: completare l'architettura istituzionale europea con le unioni bancaria, economica (Eurobond), politica e di bilancio e modificare lo Statuto Bce per assegnarle un ruolo di prestatore di ultima istanza. Non può farlo certamente un Parlamento «di protesta», deve farlo un Parlamento europeo politicamente forte, non suddito dei tedeschi. In questo passaggio l'Italia ha un ruolo fondamentale.

Per questo assieme alle elezioni europee servono le elezioni politiche. Election day come chiave per la resa dei conti in Europa. Basta sangue, sudore e lacrime, ma grandi riforme. Basta con l'ossessione di Maastricht. New deal, regole e spirito nuovo. Election day il 25 maggio.

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