Roma - Un «recidivo», con «spiccata capacità a delinquere», colpevole di un fatto di tale «gravità» e con un «particolare spessore negativo», di una «plurima condotta trasgressiva», per di più «animata da coscienza e volontà nella commissione del reato» e che neppure offre «una prognosi positiva sui comportamenti futuri».
No, non parliamo di un incallito boss mafioso, di un capo della malavita comune, di un sanguinario assassino, ma del giornalista Alessandro Sallusti così come lo descrive la Corte di Cassazione.
Scopriamo, dalla motivazione della sentenza che lo ha condannato a 14 mesi di carcere per diffamazione a mezzo stampa e omesso controllo, di avere per direttore uno che fa parte della categoria dei delinquenti abituali senza molte chance di redenzione, catalogata da Cesare Lombroso. Uno che merita la galera, insomma.
«La storia e la razionale valutazione di questa vicenda - scrive il relatore Antonio Bevere e sottoscrive il presidente della V Sezione penale Aldo Grassi - hanno configurato i fatti e la personalità del loro autore, in maniera incontrovertibile, come un'ipotesi eccezionale, legittimante l'inflizione della pena detentiva».
Altro che distaccato esame della conformità alla legge delle due precedenti condanne, altro che asettico controllo della forma, qui si entra pesantemente nel merito della questione, con 26 pagine di inusuale durezza, sorprendenti per il coinvolgimento che trasuda da ogni riga.
Perché il fatto è, e questo alla fine emerge chiaramente dal verdetto, che un giornalista si è permesso di diffamare un giudice, Giuseppe Cocilovo, di attentare non solo alla sua reputazione, ma «all'autorità del potere giudiziario».
Colpiti dall'articolo firmato con lo pseudonimo Dreyfus (poi rivelatosi di Renato Farina) e pubblicato nel 2007 da Libero, allora diretto da Sallusti, sono per i magistrati anche i genitori della bambina tredicenne che ha abortito e lo stesso medico che ha praticato l'interruzione di gravidanza, ma soprattutto il giudice di Torino che ha attivato la causa penale. E questo fa la differenza. Fa rientrare il caso tra le pochissime «ipotesi eccezionali» per le quali, secondo la Cassazione, anche la legislazione europea giustificherebbe la detenzione dei giornalisti.
La sentenza batte molto sull'«illecita strategia di intimidatrice intolleranza, di discredito sociale, di sanzione morale, diretta contro il magistrato». Sulla durezza della «campagna intimidatoria» e «diffamatoria» nei confronti del giudice, presentato come chi ha «costretto» la bambina all'aborto, «un assassino».
La libertà di espressione, si legge nella motivazione, può essere limitata con la più grave delle sanzioni «per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario». L'esigenza di tutelare questi valori «prevista dalla norma europea» giustificherebbe, dunque, la condanna al carcere che pure è l'extrema ratio. Sia per la giurisprudenza italiana che per quella della Corte di Strasburgo, questo sarebbe un raro caso in cui la libertà di opinione va messa da parte. E per la doppia esigenza di protezione della reputazione dei cittadini con la «divulgazione di informazioni riservate» e di tutela dell'immagine del potere giudiziario.
«Nel caso di offesa ingiustificata a un magistrato - sostengono i Supremi giudici - viene inoltre affievolita la fiducia della collettività, che deve costituire schermo e incentivo a un corretto svolgimento di una fondamentale funzione dello Stato di diritto».
Le scelte della Corte d'appello di Milano del carcere, senza sconti, senza sospensione condizionale della pena, né attenuanti generiche, per gli ermellini del Palazzaccio non sono sindacabili: «Rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito».
Sallusti poi, si sottolinea, ha già a suo carico numerosi precedenti penali in pochi anni: «Sette pregresse condanne per diffamazione di cui sei in relazione all'ipotesi prevista dall'art. 57 c.p. (omesso controllo, ndr)».
Il giornalista è reo di aver «sbattuto in prima pagina» un giudice, una ragazzina minorenne e la sua famiglia, travisando i fatti e senza aver fatto seguire alla pubblicazione degli articoli contestati scuse e rettifiche. Non si tratterebbe, in questo caso, solo di omesso controllo perché la Cassazione contesta a Sallusti un «meditato consenso» e una «consapevole adesione» allo scritto anonimo. «Il dolo» risulterebbe «ulteriormente rafforzato» sia «dalla mancata rettifica della notizia palesemente falsa», sia dal prosieguo, nei giorni successivi, della «crociata» contro il magistrato.
Sulla diffamazione a mezzo stampa, si legge nella sentenza, da tempo si discute «senza raggiungere una condivisa scelta ed una razionale e coerente riforma». Dunque, finché non sarà cambiata la legge è questa, carcere compreso. Né il fatto che la stragrande parte dei giornalisti siano bersagliati da querele per diffamazione, spesso dallo scopo intimidatorio, può influire. Da noi, contrariamente ad altri Paesi, nessuna norma colpisce chi usa questo strumento per impedire ai mass media di indagare su fatti scomodi o comportamenti scorretti. La Cassazione spiega che «non può ammettersi l'esistenza di una lecita attività lavorativa che abbia, come inevitabili prodotti naturali, fatti lesivi di diritti fondamentali dei cittadini».
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