Ventisei nell'arco di due anni. E solo al tribunale di Milano. È il numero degli articoli del Corriere della sera finiti sotto processo insieme ai giornalisti che li hanno scritti e al direttore della testata. Un record, ma in una graduatoria affollata di imputati. Il Giorno è a quota 17, Panorama segue a ruota a 15, poi via via tutti gli altri. Fa parte del mestiere, una professione che si svolge su un confine difficile, mai fissato con chiarezza. Basta poco e scatta l'accusa di diffamazione. L'avvocato Sabrina Peron ha sviluppato nel 2007 uno studio approfondito, uno dei pochi sul tema, per conto dell'allora presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo. La fotografia è un po' datata ma molto interessante perché al setaccio del legale sono passate tutte la cause arrivate al tribunale di Milano fra il 2003 e il 2004 e poi tutti i procedimenti definiti dalla corte d'appello del capoluogo lombardo nel triennio 2003-2005.
Le cifre del contenzioso sono imponenti: un flusso continuo di carte bollate che ritorna nelle aule in cui si discutono i procedimenti di secondo grado. Qua troviamo il Giornale che sfuggiva al rilevamento precedente perché gran parte delle sentenze che lo riguardano arriva dal tribunale di Monza. E il Giornale è al vertice di questa poco invidiabile classifica con 55 processi, ma gli altri vengono dietro, sia pure a distanza: Panorama è a 19, Repubblica a 16, il Corriere della sera a 13, la Padania a 8, le tv di Mediaset a 7.
Non è possibile generalizzare, ma si può affermare che i processi per diffamazione sono all'ordine del giorno, per non parlare di quelli civili che richiedono alti conteggi. Attenzione: una sentenza come quella che riguarda Alessandro Sallusti si fa però fatica a trovarla. In tribunale, nel giro di 24 mesi, la punizione più dura è sempre sotto i 6 mesi. E in corte d'appello si scende ancora, anche se su un calendario spalmato su tre anni: il massimo della pena è di 4 mesi e 15 giorni, a correzione di un verdetto precedente, non di matrice ambrosiana, che aveva appioppato al giornalista una pena pesantissima di 24 mesi di carcere. In secondo grado, come si vede, la punizione è stata mitigata, il contrario di quel che è accaduto ad Alessandro Sallusti che in prima battuta era stato condannato a pagare 5mila euro, ovvero una pena pecuniaria.
La multa è la pena standard di questi processi, il carcere l'eccezione. Si è chiuso a colpi di euro il 94 per cento dei processi in tribunale, solo il 6 per cento delle querele è finito con la condanna al carcere, ma sempre con una pena poco più che simbolica. In corte d'appello le proporzioni cambiano ma non di molto: il 72 per cento delle condanne non va oltre la multa e solo il 20 per cento si traduce in una condanna detentiva.
Insomma, il caso Sallusti è in controtendenza: è raro che la pena salga passando dal primo al secondo grado. È ancora più difficile trovare una condanna a 14 mesi e, anche se mancano dati specifici, sembra davvero un unicum la mancata concessione della condizionale. Non sorprende invece il fatto che a querelare il direttore dimissionario del Giornale sia stato un magistrato. In tribunale, dove già sono di casa, i giudici sono parte offesa nel 18 per cento dei procedimenti per diffamazione. Le persone giuridiche, quindi società e associazioni, rappresentano il 14 per cento del totale, contro il 9 per cento dei politici. In appello i magistrati svettano con il 19 per cento delle querele, ma i politici li appaiano con la stessa percentuale, mentre gli amministratori delle persone giuridiche si fermano al 9 per cento. I custodi della legge sono dunque fra le categorie più attente nel non farsi pestare i piedi.
L'alluvione di numeri può anche risultare indigesta, ma aiuta a far capire lo guerriglia che si combatte su quel confine inquieto. In particolare sul terreno della cronaca dove spesso si accende la scintilla della disputa: nel 46 per cento dei casi in tribunale, un po' meno in secondo grado. Certo, nove sentenze su dieci puniscono l'assenza del criterio di verità, insomma la pubblicazione di notizie false. Patacche. Ma in appello emerge un altro fenomeno allarmante che rischia di mandare al macero tutti gli altri numeri: un quarto dei processi svanisce nella nuvola della prescrizione.
di Stefano Zurlo
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