Si moltiplicano le tesi dei giuristi sulla legittimità costituzionale della legge Severino. Pubblichiamo la sintesi in tre punti del parere «pro veritate» di 17 pagine redatto dai costituzionalisti Nicolò Zanon (membro laico del Consiglio superiore della magistratura), Beniamino Caravita e Giuseppe De Vergottini. Gli esperti concordano: così come sono state redatte, le norme violano la Carta.
1Incandidabilità e ineleggibilità sono due istituti sostanzialmente diversi, accomunati soltanto dall'introdurre limiti all'elettorato passivo, che è un diritto inviolabile, e solo una lettura superficiale li può accostare. Sono diversi per presupposti giustificativi, conseguenze e, fino alla legislazione «Severino» del 2012 (legge n. 190 del 2012 e decreto legislativo del 2012), per ambito di applicazione.
Le cause d'incandidabilità configurano, in capo al soggetto condannato per certi reati, uno status di «inidoneità funzionale» all'assunzione di cariche elettive, motivato dalla necessità di garantire buon andamento e trasparenza delle amministrazioni pubbliche, ordine e sicurezza pubblici, libera determinazione degli organi elettivi. Questa inidoneità funzionale assoluta non può essere rimossa per volontà dell'interessato. L'eventuale elezione di un soggetto incandidabile è nulla, ma di regola non può nemmeno verificarsi, poiché il soggetto incandidabile che si candidi viene cancellato d'ufficio dagli uffici elettorali.
Le cause d'ineleggibilità, invece, servono a garantire la libera ed eguale espressione del voto del corpo elettorale, impedendo l'elezione di soggetti che, in virtù dei ruoli già ricoperti, possano più facilmente attirare il consenso degli elettori, così alterando la libera ed eguale competizione dei candidati. L'elezione di un soggetto ineleggibile non è nulla ma invalida, a condizione che il soggetto rimuova tempestivamente la causa d'ineleggibilità a lui relativa, ciò che indica come le cause d'ineleggibilità, a differenza di quelle d'incandidabilità, sono liberamente rimovibili dall'interessato.
Fino al 2012, cause d'incandidabilità erano previste solo per le elezioni locali e regionali. Ora, la legislazione Severino, appunto nel 2012, le ha introdotte anche per le elezioni al Parlamento nazionale.
Proprio su questo aspetto si apre il dubbio di costituzionalità: infatti, mentre per tutte le elezioni, diverse da quelle per il Parlamento nazionale, l'articolo 51 della Costituzione consente al legislatore di identificare con una certa libertà le cause di limitazione all'elettorato passivo, per le elezioni al Parlamento nazionale vale, quale norma speciale, l'articolo 65 della Costituzione, il quale detta con un elenco tassativo i limiti all'elettorato passivo che il legislatore può introdurre: «la legge determina i casi di ineleggibilità e di incandidabilità con l'ufficio di deputato e senatore».
E se cause di ineleggibilità e incandidabilità non coincidono, è quindi tutto da dimostrare che il legislatore possa trasferire le seconde alle elezioni per il Parlamento. Da qui, il dubbio sulla compatibilità della legislazione «Severino» con l'articolo 65 della Costituzione.
2Il decreto legislativo n. 235 del 2012, all'articolo 3, tratta della cosiddetta incandidabilità sopravvenuta nel corso del mandato elettivo parlamentare. Essa riguarda il caso dei parlamentari che al momento delle elezioni non erano colpiti da una causa d'incandidabilità, avevano perciò vinto regolarmente il seggio parlamentare, ma si trovano condannati, in corso di mandato, per un reato che comporta la loro incandidabilità (appunto «sopravvenuta»). L'articolo 3 del decreto legislativo afferma che «qualora una causa di incandidabilità ... sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera d'appartenenza delibera ai sensi dell'art. 66 della Costituzione».
Si noti subito che in tal caso non si ha solo a che fare con una limitazione drastica del diritto del singolo all'elettorato passivo e a ricoprire l'ufficio di parlamentare, ma anche con un istituto che consente ad una sentenza di precostituire le condizioni affinché la composizione politica della Camera, quale risultante dalle elezioni, sia alterata, potendo infatti dalla sentenza derivare la (eventuale) decadenza del parlamentare, che pur aveva vinto regolarmente il proprio seggio.
Pur ricordando prudentemente le competenze costituzionalmente attribuite alla camera d'appartenenza dall'articolo 66 («Ciascuna camera giudica sui titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte d'ineleggibilità e incompatibilità»), il testo dell'articolo 3 del decreto legislativo n. 235 del 2012 è in contrasto palese con l'articolo 66 appena ricordato. Infatti, se, come molti sostengono, la camera d'appartenenza è chiamata, con una mera presa d'atto, a votare necessariamente per la decadenza dal seggio del parlamentare condannato, ciò urta frontalmente contro la libertà di determinazione che l'articolo 66, per comune consenso attribuisce, in materia, a ciascun ramo del Parlamento. Se, invece, si sostiene che ciascuna camera è libera di valutare diversamente, e di decidere per il mantenimento nella carica del suo componente, allora la camera d'appartenenza è costretta a violare il contenuto di una legge dello Stato e le conseguenze del giudicato della sentenza, dalla quale l'incandidabilità sopravvenuta deriva. Questa scelta espone la camera d'appartenenza a un ricorso per conflitto d'attribuzione tra poteri, di fronte alla Corte costituzionale, da parte dell'autorità giudiziaria.
Qualunque tesi si accolga, insomma, circa il contenuto e il significato dell'articolo 3 del decreto legislativo n. 235 del 2012, ne derivano problemi di natura costituzionale. E questo indica che tale articolo 3 è norma intrinsecamente irragionevole, in contrasto, oltre che con l'articolo 66, anche con l'articolo 3 della Costituzione.
3È da osservare infine l'esistenza, nella legge delega n. 190 del 2012, e nei rapporti di questa con il decreto legislativo n. 235 del 2012, un ulteriore e decisivo profilo di costituzionalità.
La legge delega, all'articolo 1, comma 64, lettera m), contiene quelli che dovrebbero presentarsi come i principi e criteri direttivi che ispirano la redazione dell'art. 3 del decreto legislativo n. 235 del 2012.
Ebbene, il testo di questa parte della delega è assai oscuro e fonte di problemi: esso stabilisce che il decreto legislativo deve «disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 (fra le quali quelle di deputato e senatore) in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica». Ora, in disparte la questione della sospensione, non prevista per il mandato parlamentare, è l'espressione «decadenza di diritto» a creare problemi.
Poiché la decadenza dalla carica di parlamentare è regolata dal voto della camera d'appartenenza ex articolo 66 della Costituzione e non consiste affatto, giusto tutto quel che si è detto sopra al n. 2, in una «decadenza automatica o di diritto» delle due l'una: o tale parte della delega non può riferirsi alle cariche parlamentari, ma solo a quelle previste per le cariche di consigliere regionale o di enti locali (che può considerarsi un automatismo), e allora è la previsione dell'articolo 3 del decreto legislativo n. 235 del 2012 a essere viziata da eccesso di delega (per violazione dell'articolo 76 cost.), in quanto esplicitamente ma incostituzionalmente dedicata a ipotizzare una decadenza del parlamentare regolarmente eletto in corso di mandato.
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