Illegale l'inchiesta Ruby

La verità poco alla volta viene a galla: alla Procura di Milano non si è amministrata la giustizia nel rispetto dei codici e del diritto, ma si è allestita una caccia all'uomo calpestando codici e diritto

Illegale l'inchiesta Ruby

Poco alla volta la verità sta venendo a galla. E la verità dice che alla Procura di Milano non si è amministrata la giustizia nel rispetto dei codici e del diritto, ma si è allestita una caccia all'uomo calpestando codici e diritto. Noi lo sosteniamo da tempo, ora lo ammettono anche gli stessi magistrati protagonisti dello scempio. Non sono pentiti né parlano per amore di verità. Semplicemente si stanno sbranando tra di loro come bestie impazzite dopo che si è rotto il patto di omertà che li ha legati per tanti anni. Non c'è nulla di nobile in questo, solo piccolezze umane di persone che pensavano di essere Dio.

L'ultima notizia che esce dal Consiglio superiore della magistratura, sede della resa dei conti tra pm un tempo compari e ora avversari, è che Ilda Boccassini avviò l'inchiesta Ruby - quella sulla vita privata di Berlusconi - in modo illegale. Non aveva titolo per ficcare il naso in quella vicenda, lo sapeva, ma si mosse ugualmente perché per lei, e solo per lei, la legge non conta. Lo sapeva lei, lo sapevano i colleghi oggi ciarlieri ma per tre anni silenziosi, forse per convenienza politica, forse per calcolo professionale, forse per paura. Paura di essere messi in punizione, trasferiti o bloccati in carriera dalla cupola di Magistratura democratica, la setta di pm e giudici di sinistra che ha messo nel mirino Berlusconi e che tutto può dentro quel mondo. Se invidie e gelosie non avessero portato la melma a galla, oggi potrebbero ancora raccontarci la favola della Procura di Milano luogo dei giusti.

Per completare il quadro, consiglio la lettura di un libro appena uscito, "Le catene della sinistra", scritto dal collega de Il Foglio Claudio Cerasa. Il capitolo sui legami ideologia-politica-giustizia è da brividi.

Documenti, testimonianze dirette e «confessioni» di magistrati (Francesco Misiani, ad esempio: «Non posso negare che nelle mie decisioni di giudice non abbia influito e molto la mia ideologia») disegnano un Paese nel quale gli uomini vengono giudicati non in base ai reati commessi, ma alle idee e alle appartenenze. Esattamente quello che è successo nel famigerato processo Ruby.

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