Incontrare (come direbbe l'agente Catarella) di pessona pessonalmente il commissario Montalbano è emozionante. Soprattutto perché il Montalbano in questione non è il commissario televisivo interpretato da Zingaretti, bensì un commissario vero, per 30 anni servitore dello Stato. Lui, Saverio Montalbano, 63 anni, fisico segaligno e lingua tagliente come un rasoio, i mafiosi con la coppola (e quelli travestiti con gli abiti eleganti delle istituzioni) li ha combattuti davvero. Ne è uscito con le ossa rotte, ma a testa alta. Oggi è fuori dal pantano, ma gli schizzi di fango restano macchie incrostate. «Lo sporco che ho visto nelle istituzioni, non l'ho trovato neppure in Cosa nostra», dice Montalbano. Una frase agghiacciante. Che però questo sbirro tutto d'un pezzo assicura di poter provare, documenti alla mano. Vero? Falso? Certo è che il suo curriculum professionale è garanzia di autorevolezza. Nel suo lungo peregrinare fra le questure siciliane (Trapani e Palermo le piazze più calde), Montalbano ha messo a segno colpi che gli hanno regalato un sacco di encomi. Ma anche una caterva di grane.
«Tra il sottoscritto e il mio alter ego televisivo - nota amaramente Saverio Montalbano - le differenze sono enormi. Compresa quella che lui ha dei capi irreprensibili e leali, mentre alcuni miei superiori hanno spesso giocato sporco». Ogni volta che Montalbano si è avvicinato al cosiddetto «terzo livello», ha pagato infatti sulla sua pelle il prezzo di un sistema colluso che sa essere implacabile con chi va contro corrente. Quello che esce dalla bocca di Montalbano è, per sua stessa ammissione, «materia esplodente». Altro che le trame letterarie di Camilleri; quelle dell'ex capo della Mobile, Saverio Montalbano, sono trame sporche di sangue. Il suo battesimo di fuoco è nel 1983 con l'omicidio mafioso del giudice Ciaccio Montalto. Montalbano entra in possesso di «bobine compromettenti». Conversazioni che lasciano intendere come Stato e mafia non siano sempre due entità in conflitto tra loro. Anzi. L'Italia in quegli anni è teatro di mattanze. Nel 1985 la strage di Pizzolungo che aveva come obiettivo il giudice Carlo Palermo. Montalbano è lì e avverte la brutta la sensazione che tra «buoni» e «cattivi» il confine è tutt'altro che marcato. Sospetti che si rafforzano con l'omicidio di Ninni Cassarà. L'anno successivo Montalbano siederà proprio dietro la scrivania che era stata di Cassarà, imbattendosi - tra l'altro - nella loggia segreta «Iside 2» dove magistrati, politici, alti burograti, commercianti e imprenditori, sono accusati di svolgere un'attività inquietantemente bordenline.
Montalbano, con alterne fortune, si è relazionato in passato con due capi storici della polizia come Antonio Manganelli e Giovanni De Gennaro; idem sul fronte magistratura, con Giovanni Falcone e Alberto Di Pisa.
Di Montalbano va ascoltato ciò che dice, ma soprattutto va interpretato ciò che non dice. È come se ogni parola fosse la punta di un iceberg che nasconde un parte sommersa molto più ampia di quella emersa. Ci sono - nei racconti di Saverio Montalbano - battute, pause, sorrisi, silenzi che parlano meglio e di più di una dichiarazione ufficiale. Come quando ricorda la storia di quell'alto magistrato in casa del quale furono trovate 4 pistole con le matricole abrase: «Si giustificò dicendo che qualcuno gliele aveva buttate nel giardino di casa il giorno prima. La stessa scusa cui ricorrevano i mafiosi ogni volta che durante le perquisizioni venivano ritrovate armi nelle loro abitazioni. Quel giudice fu arrestato ma il fascicolo venne subito archiviato». «Ho fatto cenno a questo episodio - ci dice il dottor Montalbano - per evidenziare come personaggi che vengono incoronati mediaticamente come paladini della giustizia, abbiano in realtà enormi scheletri negli armadi». Scheletri che hanno turbato non poco le notti del commissario Montalbano che, in più fasi della sua carriera, si è trovato a rispondere di accuse infamanti: «Hanno cercato di incastrarmi tantissime volte, come quando mi accusarono di favoreggiamento nell'omicidio dell'agente Lorenzo Mondo. Un delirio. Non so, forse volevano farmi impazzire o spingermi al suicidio. Ma non ci sono riusciti. Per fortuna ho spalle larghe e una famiglia meravigliosa che mi ha sempre sostenuto».
Intanto trascorrono gli anni, ma le segnalazioni di Montalbano rimbalzano attorno al muro di gomma alzato a protezione del dialogo occulto tra parti dello Stato e pezzi dell'anti-Stato. Accade nel '92 con le stragi di Capaci e di via D'Amelio e riaccadde nel '93 con la controversa cattura di Riina. In questa logica di patti incoffessabili, uomini di Montalbano possono solo dare fastidio ai «manovratori» che infatti lo emarginano il più possibile. Montalbano chiude la carriera come comandante della polizia municipale di Termini Imerese. Ma anche qui per l'ormai ex commissario la vita non è facile. A Termini Imerese il malaffare è di casa. Montalbano non mette la testa sotto la sabbia, beccandosi una raffica di denunce. Viene licenziato dal sindaco e poi reintegrato dal tribunale. La pensione arriva come una liberazione, anche se di contenziosi aperti Montalbano continua ad averne. Ma oggi è subentrato un senso di disincanto.
Continua a combattere, ma più serenamente, facendo la spola tra la sua detestata Palermo e l'ospitale Milano, dove vivono i due figli (uno musicista l'altro laureato in economia).La sera cena in famiglia e un po' di televisione. Oggi danno il commissario Montalbano, lo vedrà?
«Se proprio non c'è niente di meglio...».
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