Il flop di Obama Stati Uniti mai così in basso

Senza una linea politica riconoscibile, tra Siria e "shutdown" sta dimostrando tutti i suoi limiti

Il flop di Obama Stati Uniti mai così in basso

Obama perde colpi, non gliene va bene una e a Washington DC circola una feroce battuta: «Se fosse stato bianco, repubblicano e figlio d'un petroliere, lo avrebbero già fatto fuori». Ma Obama è nero anche se non discende dagli schiavi importati dagli inglesi: suo padre Barack Hussein Obama era un economista keniota che venne negli Usa a studiare, mise incinta una bella ragazza bianca e se ne tornò a casa lasciando il suo bimbo nelle mani accoglienti dei nonni bianchissimi, molto wasp, protestanti e all'antica che lo allevarono come un bravo ragazzo del Midwest. Era ed è un democratico confuso: la più autorevole rivista di politica estera del mondo, Foreign Affairs, si è per anni chiesta se Obama fosse di destra o di sinistra. O di centro. Non si capisce, non ha una linea, salvo quella di una demagogia spicciola, ma molto moderna. E se abbia un sogno, una prospettiva oppure se tiri a campare con quel che gli passa il convento dei fatti giornalieri.

Ma ha dalla sua la maggior parte degli europei, incantati dal colore della sua pelle, perché gli europei, specialmente i francesi e gli italiani, considerano molto di sinistra e molto chic un presidente americano nero, sforzandosi di trovargli qualità nascoste. Obama è comunque un uomo simpatico e alla mano, spigliato e un buon oratore che viene dal sindacato e da una scuola politica fatta degli intrallazzi di una Chicago in cui gli affari, di destra e di sinistra, fatti da democratici e da repubblicani, inclusi sindacati e polizia, sono da decenni molto opachi.

Obama ha incamerato una serie di sconfitte interne e internazionali e questo accade proprio durante il secondo mandato, quando cioè un presidente, non avendo più la preoccupazione di essere rieletto perché è alla fine della sua carriera, può fare più o meno quel che gli pare e piace. Ma fino a un certo punto, perché la democrazia americana è regolata in modo tale che il presidente sia un re pro tempore (e sua moglie una first lady fin dai tempi dell'indipendenza, affinché fosse equiparata a una regina europea) ma la borsa la tiene il Congresso, sicché non si fa nulla se Camera dei rappresentanti e il Senato non concedono i finanziamenti, le autorizzazioni e le loro auguste e schizzinose opinioni.

In questi giorni il presidente ha incassato la sconfitta dello shutdown, cioè la resa dello Stato e di tutta la sua burocrazia che di colpo non è più autorizzata a pagare gli stipendi e far funzionare la gigantesca creatura del red tape, il nastro rosso della macchina da scrivere che indica il peggio della burocrazia statale. Democratici e repubblicani non hanno trovato l'accordo ed è stato il disastro. Ieri Obama ha assicurato: «Ci sono abbastanza voti alla Camera dei rappresentanti perché lo Stato riapra oggi stesso». Ce la farà? Forse sì, prima o poi accadrà, ma il colpo alla sua immagine è stato tremendo e il presidente irato, è in ginocchio.

La sua riforma sanitaria non va avanti e anzi si arena, perché tutti gli esperimenti d'avanguardia per un servizio sanitario nazionale sono disertati dalla popolazione, specialmente quella democratica. Democratici in genere sono tutti i borghesi che fanno lavori intellettuali ma - come ho potuto constatare con i miei occhi negli ambulatori della Florida già tre anni fa - le signore ben vestite di sinistra si rifiutano di portare i loro bambini in un ambulatorio in cui non è possibile scegliersi il medico ma devi contentarti di quel che passa il turno di guardia. La riforma sanitaria di tipo europeo, ma anche di tipo canadese (molto disprezzato) è considerata unamerican, geneticamente contraria allo spirito degli Stati Uniti. L'idea dell'elettore democratico affluente è che il servizio sanitario pensato da Obama vada applicato ai soli poveri senza disturbare gli agi della classe media che recalcitra di fronte alla prospettiva di pagare maggiori tasse.

E poi la Siria. Obama - che pure aveva sostenuto la presenza militare americana in Afghanistan durante la sua prima campagna elettorale - ha imboccato la fallimentare via del sostegno a tutti i costi della cosiddetta «primavera araba» anche quando è diventato chiaro, specialmente in Egitto, che i fiori della primavera sono pieni delle spine di Al Qaida e dei jihadisti.

Ma Obama testardamente ha sostenuto l'egiziano Morsi e combattuto i generali egiziani che lo hanno deposto imponendo il ritorno allo Stato laico e di diritto in cui la giustizia non fosse amministrata attraverso la sharia. Obama però si è impuntato con la Siria. Contrario a ogni intervento in Medio Oriente, dopo aver giurato che non si sarebbe mai comportato come un repubblicano alla George W. Bush, ecco che schiera le navi da guerra davanti a Damasco accusata di aver usato il gas Sarin contro i ribelli, provocando una strage tra i civili con centinaia di donne e bambini avvelenati. E dichiara che vuole una guerra punitiva, subito.

Lo ha fatto mentre inglesi e canadesi, italiani, inglesi e francesi smettevano di caldeggiare le rosse primavere arabe grondanti di sangue e lo ha fatto così maldestramente da consegnare una vittoria politica diplomatica internazionale - la prima che si ricordi - al detestato Vladimir Putin, il quale ha imposto a Obama di rimangiarsi l'operazione militare e di farsi ingabbiare dalle maglie della politica delle Nazioni Unite dove gli Usa non contano su una maggioranza. Questa situazione ha provocato grande nervosismo al Pentagono e ha dato spazio ai repubblicani di dilagare al Senato raccogliendo i frutti del diffuso malessere in campo democratico.

Quel malessere si è trasformato nello shutdown, o lo ha favorito e drammatizzato, sicché l'effetto delle sconfitte si è ingigantito. Obama rappezza alla buona, come può, facendo altri disastri: e così rinuncia ai viaggi di Stato previsti in Asia per l'Apec (l'unione di cooperazione economica fra Asia e Pacifico) e al summit dell'Asia di sudest.

Un altro colpo all'immagine internazionale degli Stati Uniti, con grande soddisfazione del venezuelano Nicolàs Maduro, successore di Chavez, e del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che cura la propria nevrosi promettendo un giorno sì e uno no ai suoi sudditi di bombardare gli Stati Uniti. Il prestigio internazionale degli Stati Uniti e la sua influenza come Paese leader non erano mai caduti così in basso.

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