L'ultimo schiaffo (meritato) all'Italia viene dall'Ikea, una delle multinazionali più amate dal pubblico. «Investire in Italia significa affrontare un percorso dove la burocrazia inerte è un ostacolo» ha detto ieri Lars Petersson, amministratore delegato di Ikea Italia. Il gruppo è presente nel nostro Paese dal 1989 e oggi ha una rete di 20 negozi d'arredamento che nell'anno fiscale 2011-2012 (chiuso il 31 agosto) hanno registrato ricavi per 1.598 milioni di vendite (il 6,3% del totale mondo, che è di 25,3 miliardi). Il riferimento esplicito di Petersson è ai ritardi burocratici per l'apertura del terzo punto vendita in programma a Roma, in zona Pescaccio: 36mila metri quadrati, un investimento di 115 milioni, con una previsione di 310 posti di lavoro diretti e 70 indiretti. «Comprendiamo che al momento la situazione regionale è molto complicata - ha ammesso il numero uno in Italia dell'azienda svedese - ma troviamo inaccettabile che simili lungaggini ritardino l'apertura di un progetto come il nostro. Per aprire un nuovo negozio in Italia occorrono tra i sette e i nove anni, tempo doppio rispetto al resto dell'Europa». A Roma, spiega, le prime domande sono state presentate sette anni fa e tuttora tutto è in alto mare, «ma senza che formalmente nessuno sia contrario all'investimento. Assistiamo a una situazione di vischiosità passiva, di procedure che non si muovono, di totale inerzia degli uffici». Una multinazionale, come peraltro qualunque azienda, ha bisogno di certezze.
Il caso più emblematico (e più istruttivo) è quello vissuto da Ikea in Toscana. «Per sei anni abbiamo aspettato una risposta definitiva per l'apertura di un grande negozio a Vecchiano, presso Pisa. Alla fine, esausti, abbiamo cancellato il nostro progetto e la casa madre svedese ha dato un'indicazione precisa: dirottiamo a Lubiana i 70 milioni d'investimento previsti per Pisa. A quel punto - continua Petersson - il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, ha preso in mano la situazione, ritenendo assurdo perdere così la nostra presenza e 270 posti di lavoro. Ha personalmente nominato un interlocutore unico che ci ha seguiti nella scelta di un terreno alternativo e nell'intero percorso burocratico. Una specie di sportello unico. Bene: a maggio 2011 è partito questo iter, quattro mesi dopo abbiamo scelto la localizzazione e ora, a metà ottobre 2012, posiamo la prima pietra. Tempi e procedure che andrebbero standardizzati ovunque, in tutta Italia».
La si chiami semplificazione burocratica, la si chiami politica industriale, l'obiettivo è sempre lo stesso: dare agli investitori italiani ed esteri certezza del diritto, dei tempi e delle procedure. Invece quando ciò accade, si grida al miracolo. Mentre Ikea si appresta a investire altri 400 milioni in Italia nei prossimi tre anni, ci sono imprese come British gas, come Erg Rivara Storage, come Erg-Shell, che rinunciano soffocate dalla burocrazia: il caso British è emblematico, ha lasciato l'Italia dopo 11 anni di inutili attese delle autorizzazioni e dei permessi per un rigassificatore a Brindisi da 400 milioni d'investimento. Le autorità non si sono nemmeno pronunciate su un insediamento che avrebbe creato 1000 posti di lavoro. Kafkiano. Caso in qualche modo analogo quello della italo inglese Erg Rivara, che nel 2002 aveva presentato domanda per un progetto di stoccaggio del gas a Rivara, nel Modenese, poi sopraffatto dal silenzio delle amministrazioni.
Senza parlare delle aziende italiane che se ne vanno oltreconfine per rincorrere più efficienza e un fisco più equo: dal Nord-Est sono centinaia e centinaia le società che si sono sviluppate o che hanno traslocato i propri stabilimenti in Austria e in Slovenia. Anche una multinazionale-gioiello come la friulana Danieli (impianti siderurgici) ha dovuto riconoscere la maggior efficienza delle burocrazie dei Paesi più vicini.
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