Roma - Ruanda, Iran, Vietnam, Burundi, Corea del Nord, Turkmenistan, Sudan, Laos, Siria, e altri regimi. Sono 146 i giornalisti imprigionati nel mondo (dato raccolto da «Reporter sans Frontieres»), ma neanche uno tra le democrazie occidentali, in cui rientra anche l'Italia. Che però, nel suo codice penale, prevede la galera per i reati a mezzo stampa, dunque per i giornalisti. Un retaggio del passato, uno dei tanti del codice penale introdotto nel 1930 da Alfredo Rocco, ministro della Giustizia del governo Mussolini ed ispiratore delle leggi speciali dette «fascistissime». Il codice è stato ritoccato più volte ma resta ancora l'impianto base del sistema penale italiano, specie nell'impostazione sui reati di opinione e contro lo Stato che risente della filosofia autoritaria nella quale è stato concepito. Il cattolico Pinto, estensore dell'omonima legge sul risarcimento per l'eccessiva durata del processo, definì il codice penale Rocco «incompatibile, in tanti casi, con la democrazia», Violante ha parlato di «residuo di un'epoca totalitaria», il giurista Rodotà di un «prodotto della cultura autoritaria paradossalmente sopravissuto».
Prendiamo l'articolo che riguarda la diffamazione a mezzo stampa, il 595, quello applicato a Sallusti. Prevede la reclusione «da sei mesi a tre anni». Originariamente - spiega il vicepresidente del Csm, Vietti - il codice Rocco prevedeva l'applicazione o della pena detentiva oppure di quella pecuniaria, mentre il cumulo di entrambe arriva nel 1948. Ma non basta, la pena è aumentata «se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio». Una misura sproporzionata, in ogni caso, rispetto alla diffamazione, sostiene il penalista Ennio Amodio. Per questo tipo di reato meglio sarebbe tornare «ad una giuria mista popolare o ad un collegio di giudici di pace», «per recuperare l'equilibrio» e dare anche «una maggior garanzia per l'imputato, perché il giudice quando avverte che l'attacco è all'ordine della sua categoria, va con mano pesante».
Il codice però si preoccupa più dell'integrità dello Stato che delle garanzie dell'imputato («garantismo inquisitorio» lo chiama Amodio). C'è persino il reato di «disfattismo economico» (art. 267), fortunatamente limitato a periodi di guerra, e solo fino a qualche anno fa i reati di «Associazione antinazionale», «Propaganda ed apologia antinazionale», «Illecita partecipazione ad associazioni aventi carattere internazionale». Il libro II del codice penale (Rocco) si apre sui «delitti contro la personalità dello Stato». Qui sono intervenute una serie di modifiche soltanto nel 2006, quando ministro della Giustizia era il leghista Castelli («abbiamo alzato il tasso di democrazia del Paese»). I reati vengono definiti in modo più preciso, le pene alleggerite. Ma rimane l'impostazione da Ventennio del codice. Ad esempio il reato di «Vilipendio alla nazione italiana», fino al 2006 punito con la prigione fino a tre anni, modificato in multa fino a 5mila euro. Se qualcuno «vilipende la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato» non rischia più tre anni di galera, ma bensì (nel nuovo art. 292) una multa che può arrivare a 10mila euro. Resta, nel nostro codice penale, che «chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, deteriora, imbratta la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito con la reclusione fino a due anni». Ed è incredibile come fino a qualche anno fa si rischiasse un anno di carcere se sorpresi semplicemente a «far risalire al presidente della Repubblica il biasimo o la responsabilità degli atti del Governo» (articolo 279, abrogato). È invece in vigore l'articolo che prevede non più il carcere ma 5mila euro di multa per «chiunque offende l'onore o il prestigio di un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o di una rappresentanza di esso». Stessa punizione per chi pubblicamente vilipende la Repubblica, il Parlamento, il Governo, o la Corte costituzionale, l'Esercito o l'ordine giudiziario in generale (multa da 1 a 5mila euro). Chiunque, poi, offende l'onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni. L'«oltraggio al pubblico ufficiale» è stato abrogato ma poi reintrodotto (art.
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