Stefano Fassina si è permesso di dire che non ogni artigiano in lite con il fisco è un avido e un ladro, e lo ha detto da ministro di sinistra e da capocorrente «comunista » nel suo partito, facendo nascere un «caso Fassina». Si conferma così una variazione nella famosa regola stabilita tanti anni fa da Ignazio Silone, scrittore cristiano e capo comunista dissidente nell’era di Stalin e di Togliatti (anni Trenta del Novecento). Diceva Silone: «La battaglia finale sarà tra comunisti ed ex comunisti». Non è da tempo più così. Oggi bisogna riformulare e modificare: «La battaglia finale sarà tra realisti e moralisti». Lo dimostra anche la chiamata alla responsabilità di Giorgio Napolitano, per formazione personale un comunista italiano doc; lo ricorderete,è l’appello al principio di realtà che ha reso possibile la fine degli equivoci nel Partito democratico e la nascita di un governo di larga coalizione tra il centrosinistra e i berlusconiani dopo le politiche, quel governo che è la bestia nera di Carlo De Benedetti e della sua grossa lobby politico editoriale. Quel governo che, per quanto debole e deficitario, è potuto nascere solo perché Napolitano appena rieletto, per puro spirito di realismo politico, ha avuto il coraggio di presentarsi alle Camere, sculacciare i lobbisti antiberlusconiani travestiti da utopisti e da moralisti, e dare infine ragione platealmente all’Arcinemico dei moralisti pazzi contro bersanismi e prodismi o rodotarismi o grillismi di ogni tipo.
Renato Brunetta, il cui attivismo anche un pochino sconclusionato è sempre più simpatico, premiato com’è dall’agenzia delle comunicazioni che ha finalmente scoperto come le trasmissioni Raitre siano faziosette (atto di realismo minimalista ma apprezzabile), ha detto a Fassina: benvenuto nel club. Il che è giusto. E anche sbagliato. Giusto perché la critica del fisco oppressivo, invadente e incapacitante è un tratto distintivo di tutte le sfumature del pensiero liberale e conservatore. Fassina con quella dichiarazione fatale si è in effetti iscritto a un club che considera comunisti e laburisti degli eccentrici.
Ma quel benvenuto è in certo senso sbagliato perché alla radice della rivolta del viceministro dell’Economia contro gli ortodossi del partito e del sindacato, in prima linea la tremenda Susanna Camusso della Cgil,non c’è una conversione al sapido realismo dei conservatori liberali (se lo Stato si prende quasi tutto, l’imprenditore non farà quasi niente), bensì un riflesso, appunto «realista», della vecchia cultura industriale del movimento operaio.
Ho sempre sostenuto, in buona compagnia, che per riscuotere le tasse occorrono tre condizioni: ridurle a una quota accettabile del reddito delle persone e delle imprese, rendere conveniente il pagarle in una catena dell’opportunità che è virtuosa solo per il suo benefico effetto e non per bontà d’animo, promuovere un senso della comunità che ha inevitabilmente un carisma politico, civile e perfino religioso (repressione fiscale compresa). Da noi mancano tutte e tre le condizioni. Siamo scettici e individualisti, pagare le tasse non appare quasi mai un gesto fruttifero e incisivo che sia conveniente, le tassesono bestialmente alte in relazione alla capacità di crescita dell’economia reale. In compenso stiamo diventando anche il Paese in cui la polemica moralistica sulle tasse arriva a invocare lo stato di polizia, investe pericolosamente la mentalità e le abitudini libere delle persone, induce chi ha un’auto costosa o una barca costosa a girare e navigare sempre in presenza della sua dichiarazione dei redditi, stiamo diventando un mondo alla rovescia, stupidamente moraleggiante, francamente grottesco, in cui chi abbia successo e riesca a guadagnare deve giustificarsi, non con la fede, come pretende comprensibilmente il Papa, ma con l’adesione all’etica di Stato, ciò che è meno comprensibile e meno commendevole.
Anche un laburista di formazione comunista come Fassina lo ha capito, e vuole giustamente e scandalosamente distinguere tra l’evasore accanito e fraudolento, lo sleale verso la comunità, e il lavoratoreimprenditore oppresso e ingabbiato da tasse inaudite, che mettono in pericolo il suo profitto, e con esso il lavoro suo e di chi gli sta attorno. E questo in nome dei suoi stessi principi di efficacia del welfare state .
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