È il parere «pro veritate» di uno specialista di diritto tributario l'ultima mossa di Franco Coppi e Niccolò Ghedini per convincere i giudici della Cassazione ad annullare la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale. Nel ricorso depositato il 19 giugno scorso contro la sentenza della Corte d'Appello milanese per la vicenda dei diritti tv, i due legali di Berlusconi avevano preannunciato la loro intenzione di aggiungere altri motivi di ricorso ai 47 già contenuti nel documento depositato a Roma. La brusca accelerazione dei tempi seguita alla decisione della Cassazione di anticipare l'udienza non ha permesso ai difensori dell'ex premier di aggiungere un nuovo ricorso. Ma Coppi e Ghedini hanno deciso di ricorrere comunque a un parere illustre per attaccare quello che, secondo l'opinione prevalente, è il punto più debole della sentenza di condanna: la esistenza del reato di frode fiscale. Se cade questo, cade tutto, e Berlusconi esce assolto un'altra volta.
1) IL REATO FISCALE Se anche si ritenesse provato che negli anni Novanta il gruppo Mediaset abbia pagato i film da trasmettere in tv a prezzi gonfiati, e che il surplus sia stato retrocesso a Silvio Berlusconi attraverso il suo presunto socio occulto Frank Agrama, resta il fatto - secondo i legali - che Mediaset quei costi, giusti o esosi che fossero, li ha effettivamente sostenuti. Quindi quando l'ammortamento dei costi è stato spalmato sui bilanci degli anni successivi non c'è stata alterazione dei conti e nemmeno risparmio fiscale. Più complicata sarebbe la posizione processuale di Berlusconi se dovesse rispondere anche di appropriazione indebita ai danni di Mediaset, come aveva inizialmente chiesto e ottenuto il pubblico ministero Fabio De Pasquale. Ma questo capo d'accusa si è prescritto strada facendo.
2) LE SOCIETA' DI MEDIAZIONE Prima di affidarsi alla battaglia sull'esistenza giuridica della frode fiscale, i difensori di Berlusconi intendono però convincere la Cassazione che il processo è errato fin dai suoi presupposti, anzi fin dalla fase delle indagini preliminari. Quando il giudice Enrico Scarlii, nella sentenza d'appello, scrive che «fin dalla seconda metà degli anni '80 il gruppo Fininvest aveva organizzato un meccanismo fraudolento di evasione connesso al giro dei diritti televisivi», secondo i legali scrive il contrario di quanto emerge nel processo. È vero che la Cassazione non può entrare nella ricostruzione dei fatti, ma può cancellare una sentenza dalla motivazione illogica. E questo per Ghedini e Coppi è il caso di questa sentenza, che non tiene conto delle numerose testimonianze che hanno sostenuto che tutte le società estere di intermediazione che entravano nella catena dei diritti erano società operative a tutti gli effetti, che piazzavano anche a altri clienti (Rai compresa) i film americani.
3) IL CONSULENTE DEL PM Secondo la Procura, il caso più eclatante di intermediazione fittizia è quello di Frank Agrama, grossista di diritti tv, anche lui condannato in questo processo. E a dimostrarlo sarebbe una parte del prospetto informativo stilato dalla stessa Mediaset in occasione della quotazione in Borsa in cui Mediaset dichiarava di avere rapporti diretti con Paramount. La difesa obietta che i ricarichi di Agrama erano quelli di mercato e che comunque in aula la stessa consulente dell'accusa, Gabriella Chersicla di Kpmg, non ha trovato prove di bonifici da Agrama a Berlusconi per dividere la «cresta». «Ha mai visto un suo versamento da parte del gruppo Wiltshire quindi dei conti bancari di queste società a favore del presidente Silvio Berlusconi e i suoi familiari?». Risposta: «No».
4) KOJAK E COLOMBO Tra gli elementi che dimostravano l'inconsistenza delle accuse, e che invece le sentenze di primo e secondo grado hanno glissato, brilla per i difensori la deposizione del dirigente Rai Sesto Cifola, che «confermava di conoscere dagli anni '70 Agrama che aveva più volte venduto diritti alla Rai. Ricordava fra questi il tenente Colombo e Kojak». E riferiva «che la presenza degli intermediari è una prassi assolutamente usuale nel settore e che Agrama operava abitualmente con un proprio stand nei mercati internazionali».
5) IL RUOLO OPERATIVO In ogni caso, sostengono i legali di Berlusconi, la macchina da guerra dell'accusa si intoppa su un dettaglio insormontabile: il ruolo diretto di Berlusconi nel programmare e commissionare il sistema di pompaggio dei prezzi. A questo tema la sentenza della Corte d'appello dedica soprattutto un ragionamento logico: a gestire il sistema erano solo dirigenti chiave di Mediaset «vicini, tanto da frequentarlo tutti personalmente, al sostanziale proprietario, rimasto certamente tale in tutti quegli anni, l'odierno imputato, Silvio Berlusconi». Ed è quindi inverosimile che Berlusconi non si rendesse conto di quanto accadeva. Ma per le difese questa prova deduttiva è contraddetta dalle testimonianze raccolte durante le indagini e le udienze. A venire indicato quasi unanimemente come il dominus del sistema di acquisto dei diritti tv è Carlo Bernasconi, morto nel 2001.
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