L'America scopre la Kyenge un genio a nostra insaputa

La rivista Foreign policy pone il ministro all'Integrazione tra i cento pensatori più influenti al mondo. I suoi meriti intellettuali? "Ha sopportato abusi inimmaginabili"

L'America scopre la Kyenge un genio a nostra insaputa

Il segretario di Stato americano John Kerry, il dissidente russo Alexey Navalny, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg dei quali è inutile presentare i curricula, Papa Francesco... e Cécile Kyenge. Della quale - sedendo lei su una poltrona offertale dal competitor Enrico Letta - uno come Matteo Renzi potrebbe dire «Kyenge, chi?».

Da oculista in un poliambulatorio di Modena a ministro dell'Integrazione del governo Letta per imposizione del conterraneo emiliano Pier Luigi Bersani, Cécile Kyenge ha ora ultimato il cursus honorum (multi)culturale: la prestigiosa rivista statunitense dedicata alle relazioni Internazionali Foreign Policy l'ha inserita nella lista dei cento «pensatori più influenti» del 2013. Pensatori.

Abbiamo in casa una statista, e non ce n'eravamo accorti. Una influente «filosofa della politica», eppure un fine politologo come Giovanni Sartori non l'aveva capito. Una autorevole decision maker che con il suo coraggio «ha cambiato l'Italia», e pensavamo che la sua nomina a ministro fosse solo un caso politicamente corretto in ossequio alle quote di colore.

Primo ministro di colore della storia italiana, di madrelingua swahili e marito calabrese, Cécile Kyenge - mediaticamente intoccabile - ha guadagnato meritatissime medaglie sul campo, rispondendo sempre con mitezza e garbo esemplari agli insulti di alcuni suoi colleghi politici, in specie leghisti, e del popolo anonimo, e più infido, della Rete. Il sorriso con cui la Kyenge ha smorzato le offese zoomorfe di alcuni curiosi esemplari del variegato bestiario parlamentare è da portare a modello, rispetto alla Boldrini piagnens, ad esempio. E tutto ciò ne fa una donna di spirito e di carattere. Ma il pensiero influente, quello è un'altra cosa.

Così recitano le motivazioni di Foreign Policy per la citazione della Kyenge fra le cento “menti” dell'anno: «ha sopportato abusi inimmaginabili. È stata paragonata a una prostituta e a un orango; le hanno tirato banane... E ha saputo gestire questo razzismo mozzafiato con grazia e equanimità. In un Paese che fatica a fare i conti con una crescente popolazione di immigrati, la sua nomina ha un valore per il solo simbolismo». Icona per icona, Mario Balotelli dovrebbe essere segnalato a Stoccolma per il Nobel per la pace.

Se lo stile con cui Cécile ha risposto alle offese razziste è senza alcun dubbio da applaudire, la sua citazione fra i cento intellettuali più importanti del 2013 è - altrettanto indubitabilmente - eccessiva. La notizia è di metà dicembre, e se la stessa grande stampa finora l'ha tenuta bassa, significare che neppure noi italiani ci crediamo troppo. Simpatica sì, simbolica pure, «pensatrice»... mah. Senza fare i nomi dei soliti noti maître à penser, quanto - al confronto - pensatori come Alain Finkielkraut, o Regis Debray, o Jean Claude Michéa, o Peter Sloterdijk, o persino Slavoj Zizek appaiono più «influenti» sulla geo-politica mondiale? Certo, sono più intellettualmente autorevoli, ma meno politicamente corretti. E così, si è scelto la Kyenge.


Quando Enrico Letta, nell'aprile scorso, la chiamò per affidarle il ministero all'Integrazione, Cécile era a Bologna, a bere un tè con un'amica. «Non so come abbiano pensato a me», disse. A dimostrazione che non sarà una pensatrice in grado di cambiare il mondo, ma una donna di buon senso e misura, questo sì.

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