Un passo avanti per il tormentato disegno di legge sulla diffamazione, che oggi approda in aula al Senato e domani sarà votato per passare alla Camera. Ma è scontato che la bozza varata dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama subirà modifiche perché sono stati annunciati vari emendamenti. Il punto è il solito: «trovare un equilibrio» tra la libertà di stampa e il diritto all'onore di chi si ritiene diffamato. Per ora questo equilibrio resta a sfavore del giornalista.
Il carcere per il cronista viene eliminato. Bene: si ripristina una elementare norma di civiltà che ci equipara agli altri Paesi occidentali. Per il resto la situazione rimane preoccupante. Sono state appesantite le pene in denaro (multe fino a 100mila euro), proporzionali alla gravità dell'offesa e alla diffusione della testata. È stata introdotta, in caso di recidiva, la possibilità di sospensione dalla professione fino a tre anni: niente lavoro, niente stipendio, niente contributi. Tanto varrebbe sottoporsi a qualche mese di servizi sociali. Il giudizio sull'interdizione professionale spetta soltanto al magistrato senza coinvolgere l'Ordine dei giornalisti cui compete tale sanzione. Sono previste ulteriori aggravanti in caso di «dossieraggio», cioè se alla diffamazione concorrono almeno tre persone all'interno del giornale. La disciplina viene estesa alle testate web registrate, cioè ai siti internet dei giornali e ai notiziari telematici indipendenti.
Soprattutto viene svuotato lo strumento principale su cui doveva reggersi la riforma: la rettifica. Secondo la bozza di legge, essa dev'essere diffusa tempestivamente e con la stessa evidenza data alla notizia ritenuta diffamatoria. Ma la pubblicazione della rettifica non mette la parola «fine» al caso. Non si stabilisce una improcedibilità. La parte lesa conserva il diritto di ricorrere al giudice, fare condannare giornalista e direttore e chiedere un cospicuo risarcimento danni, dai 30mila euro in su. Dalla bozza è invece sparita la cosiddetta norma «anti-Gabanelli», per cui l'editore non avrebbe più coperto il giornalista condannato a versare un indennizzo.
Con la riforma, dunque, la pena per la diffamazione non è più individuata nel carcere ma nel risarcimento economico (una multa pesante più un'ulteriore somma decisa in sede civile) mentre la rettifica passa in secondo piano. È una linea intimidatoria. «Una minaccia preventiva e repressiva», protesta il leader sindacale dei giornalisti, Franco Siddi (nel tondo). Le sue preoccupazioni sono condivise da alcuni membri della commissione tra cui Vannino Chiti (Pd), co-firmatario della bozza iniziale del disegno di legge, il quale auspica che queste «criticità» vengano eliminate, mentre il suo collega di partito Felice Casson, ex magistrato, ritiene il testo un buon compromesso. Anche nel centrodestra convivono pareri discordanti: il senatore Raffaele Lauro chiede di togliere i «soprusi liberticidi» di una legge che invece il capogruppo Maurizio Gasparri giudica equilibrata.
Il sospetto di un impianto vessatorio è confermato da quanto ha dichiarato Rodolfo Sabelli, presidente dell'Associazione nazionale magistrati. «Noi ci siamo espressi - sentenzia Sabelli - a favore di sanzioni pecuniarie o anche interdittive, che esercitino una concreta funzione dissuasiva rispetto ad attacchi dolosi e intenzionali». Una funzione dissuasiva, appunto: la legge deve scoraggiare e intimidire.
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