Fate un giro per il centro di Londra in qualsiasi ora di giorno o notte, e noterete un fenomeno curioso: l'italiano si sente parlato quasi quanto l'inglese. Difatti la capitale britannica, nonostante la grave crisi globale, è come una calamita per gli italiani di tutte le età e di tutte le condizioni economiche e socio-culturali. Oltre ai turisti, attratti dalla straordinaria varietà culturale, dell'intrattenimento, dello shopping che non si trovano in nessun'altra città europea, ci sono tanti italiani, soprattutto giovani, che hanno deciso di trasferirsi nel Regno Unito in cerca di fortuna e di carriera o, come minimo, di una buona esperienza di vita, per imparare meglio la lingua e capire come funziona una grande civiltà dove un cittadino qualsiasi (e persino il forestiero in trasferta) si sente apprezzato e valorizzato dalle istituzioni e dal mondo di lavoro, come non succede loro in patria. E insieme a loro ci sono i «neo-londinesi» venuti da quasi tutti i paesi del mondo, compresi quelli europei.
Questo non vuol'essere un peana alla mia patria, ma una semplice fotografia della realtà: che nonostante le critiche e le battutine sopraccigliose della classe politica e amministrativa europea, che sottolinea quanto «gli inglesi sono cattivi - o riluttanti - europei, sempre pronti a sabotare il grande progetto europeo», la nostra ricetta politico-economica nazionale funziona. E così bene che più di ogni altra attira gente dagli altri ventisei paesi membri.
Dodici anni fa non c'era politico europeo (forse tranne Antonio Martino) che non ci abbia biasimato per non esserci iscritti alla nuova moneta unica. «Vedrete, grazie al vostro orgoglio presuntuoso la vostra economia sarà rovinata, tutte le multinazionali porteranno le loro sedi altrove e le banche dalla City si trasferiranno a Francoforte o a Parigi».
Quando le euro-Cassandre hanno capito che la realtà era diversa rispetto ai loro piani, allora ci hanno accusato di egoismo, di furbizia o di schiavitù verso il modello di capitalismo «selvaggio» americano.
E in tutti questi anni, i burocrati iper-remunerati di Bruxelles e i deputati strapagati di Strasburgo hanno escogitato migliaia e migliaia di lacci e lacciuoli, leggi e leggine nel loro surreale tentativo di trasformare i ventisette paesi europei in un solo soggetto politico culturale e sociale, tetro, conformista e noioso quanto la città di Bruxelles. Certo che ci sono stati accordi utili e costruttivi, ma agli occhi dell'inglese medio la maggior parte delle direttive europee sembrano calate da un altro pianeta. Subire raffiche di direttive astratte e burocratiche calate dalla capitale belga ci sembra un assurdità.
Comprendiamo benissimo l'importanza strategica e storica dell'asse franco-tedesco e l'attrazione che esercita su molti paesi medio-piccoli un'entità colossale che fa da protettore e garante, che ha aiutato paesi come la Spagna, l'Irlanda e la Polonia a ricostruirsi. E il senso di stabilità e di dignità che «l'Europa» sembra conferire all'Italia, sempre così turbata dalle sue istituzioni e dalla sua classe politica. Ma l'Europa, più che una scelta strategica, sembra per molti italiani - ed altri europei - quasi una questione religiosa: «l'Europa» come culto trascendentale in cui si crede fermamente, anche quando la qualità di vita diventa sempre più precaria. Come se l'Euro nelle vostre tasche fosse benedetto, come un rosario del Papa.
Abbiamo il massimo rispetto per la vostra (ormai toccante) fede nell'«ideale europeo» ma - sempre con rispetto - non è mai stato il nostro modo di concepire l'Europa. Siamo un popolo pragmatico, empirico, e scettico (nel senso che dubitiamo dei presunti poteri taumaturgici di questa o quella ideologia) e profondamente laico. Per noi, l'Unione Europea dovrebbe essere come un circolo inglese per gentiluomini, i cui i membri si rispettano tutti e osservano un minimo di regole pratiche e intelligenti per garantirsi una tranquilla convivenza.
Non abbiamo mai voluto entrare in una specie di matrimonio sancito davanti a Dio; tutt'al più ci andrebbe una coabitazione con il tacito consenso dei partner a qualche scapatella. Ma non è che siamo «cattivi europei», al contrario: per noi la massima conquista dell'Ue è stata il mercato unico, fortemente voluto da quel «nemico di Bruxelles» di Margaret Thatcher. E il suo perfezionamento negli ultimi tempi si deve in buona parte agli sforzi dei nostri diplomatici e funzionari a Bruxelles, esponenti di un popolo che detesta il protezionismo e le istituzioni che si guardano perennemente l'ombelico. Visto da fuori, l'Euro non sembra il grande miracolo di cui i suoi padroni e padrini si vantano sempre: certo è che noi non ne faremo mai parte. Abbiamo votato sull'Europa in un referendum nel 1975, con due terzi dell'elettorato a favore di una communità di stati nazionali legati dagli accordi soprattutto commerciali. L'Europa di oggi è tutta un'altra bestia e il nostro premier David Cameron ha correttamente deciso che è ora di ridiscutere i nostri rapporti con i partner europei per cercare di creare un rapporto più pratico, realistico e adatto al mondo futuro.
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