L'ira di Matacena: vittima di toghe rosse

Nel caso Scajola-Matacena mancavano solo le toghe rosse. «Contro di me c'è stato un complotto-vendetta», dice da Dubai l'ex deputato di Forza Italia, che tuona contro la condanna a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa arrivata in Cassazione dopo due assoluzioni nel merito. «Mai avuto rapporti o fatto affari con la mafia, è una favola. Chi mi ha colpito ha avuto gratifiche e avanzamenti di carriera», dice Matacena all'Ansa via Skype: «Da deputato mi interessai del Palazzo dei veleni di Reggio Calabria (l'allora Procura, ndr), di alcuni magistrati, dei pentiti ricompensati in nero e dei riscatti per sequestri pagati con i soldi dello Stato. Quando la Cassazione ha annullato l'assoluzione - denuncia Matacena - i miei avvocati videro un magistrato a me ben noto nell'ufficio del presidente della Cassazione che mi avrebbe giudicato e che avrebbe annullato la sentenza. Quando poi il processo passò al secondo grado, venne cambiato il giudice con uno di Magistratura democratica che mi ha condannato». Chi è questo magistrato che avrebbe fatto pressioni? Mistero. Ma quali sono i veleni a cui fa riferimento Matacena? Bisogna tornare alla guerra di 'ndrangheta degli anni Novanta, che fece quasi 600 morti e ai processi Olimpia che decapitarono le cosche. Un cocktail esplosivo innescato dalle rivelazioni al procuratore Agostino Cordova nel 1992 di Pietro Marrapodi, massone «pentito» poi suicidatosi nel 1996 (ma la famiglia dice che è stato ucciso): il notaio, ex Dc di lungo corso, fu il primo a parlare di una borghesia massonica che decideva i destini della città (erano gli anni del Decreto Reggio e della valanga di soldi piovuti dopo i moti degli anni Settanta) ma soprattutto disse che alcuni magistrati erano «contigui» ai boss. La denuncia cadde nel vuoto e la magistratura rispose con la raffica di condanne, compresa quella di Matacena, colpevole di aver fatto eleggere un politico affiliato alla cosca Rosmini e incastrato da alcuni collaboratori di giustizia considerati attendibili. Tanto che per la Cassazione quelle di Matacena sono solo «farneticazioni di un disperato».
Intanto emergono nuovi dettagli sui rapporti tra l'ex armatore e Claudio Scajola. L'ex ministro dell'Interno è accusato di essere al centro di una presunta spectre affaristico-massonica vicina alle cosche pronta a garantire a Matacena un esilio dorato a Beirut. I pm cercano riscontri alle affermazioni (secretate) dell'ex titolare al Viminale durante l'interrogatorio di venerdì ma non si escludono nuovi clamorosi colpi di scena. È spuntato un assegno da 3,5 milioni di dollari concesso dalla banca Greca «Marfin Egnatia Bank Societe Anonyme», con sede legale a Thessaloniki (Grecia), alla Amadeus spa, società controllata da Amedeo Matacena e dalla moglie Chiara Rizzo, ancora in Francia in attesa di estradizione (se ne parla la prossima settimana). Secondo i pm il passaggio di denaro rientra nel risiko societario orchestrato da Matacena e dai suoi sodali per occultare il patrimonio da 50 milioni.
E mentre la Procura dà la caccia ai fantasmi la 'ndrangheta «ruba» l'esplosivo sotto il naso dello Stato.

In questi giorni alcuni sub della Marina sono impegnati a recuperare centinaia di panetti di tritolo dai resti della «Laura C», la nave da guerra carica di tritolo affondata nella primavera del 1943 da un sommergibile inglese e arenata nel fondo sabbioso di Saline Joniche. Nel 1996 era stata messa in sicurezza, ma evidentemente il lavoro non fu fatto propriamente ad arte. Fino a oggi le cosche hanno fatto la spesa al supermarket del tritolo. Gratis.

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