RomaL'affare Mps è solo l'ultimo caso. Da una quindicina di anni l'ombra di Pier Luigi Bersani, segretario del Pd e premier in pectore (anche se nelle ultime settimane il timore sta sostituendo la sicumera e affiorano tratti di panico) lambisce storie e storiacce in cui la politica diventa affarismo arraffone e viceversa. Scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di ieri: «A che titolo Bersani si occupa da 15 anni di banche, autostrade e compagnie telefoniche non da arbitro ma da giocatore?». Bella domanda. Per la risposta, attendiamo fiduciosi.
La prima storia risale al 1999. Bersani è ministro dell'Industria del governo D'Alema e assiste plaudente all'assalto a Telecom - che l'esecutivo aveva deciso di privatizzare - da parte di una cordata guidata da Roberto Colaninno, ad di Olivetti, Emilio Gnutti e Giovanni Consorte, patron di Unipol, e centinaia di altri imprenditori di piccolo cabotaggio riuniti sotto l'ombrello dell'azienda lussemburghese Bell. Un'operazione poco limpida, in cui il governo sembra stare dalla parte di quelli che i più pessimisti chiameranno «razza padrona» e i più ottimisti «capitani coraggiosi», avallando un'operazione spericolata fatta a debito: vale a dire, tu ti fai prestare dei soldi dalle banche, con quelli «scali» un'azienda e a questa accolli i tuoi debiti. Applausi.
Bersani fa una comparsata anche nella vicenda Unipol, turbinìo di banche rampanti e banche da scalare che anima il mondo politico e finanziario attorno alla metà dello scorso decennio. Quella, per intenderci, passata alla storia non proprio commendevole dei progressisti italiani per l'esultanza telefonica (e intercettata) dell'allora segretario Ds Piero Fassino: «Abbiamo una banca». Tra i protagonisti ci sono Gianpiero Fiorani e ancora Consorte, entrambi anni dopo condannati definitivamente per avere fatto di tutto per agevolare le mene arrampicatrici di Unipol. Bersani difende entrambi e di Fiorani in particolare, come ricorda Travaglio, dice che è «un banchiere molto dinamico, sveglio, attivo, capace». Ma Bersani non si limita a un endorsement a parole. Nel giugno 2007 l'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio racconta al pm di Milano Francesco Greco che Bersani e Fassino si erano presentati nel suo studio per caldeggiare la maxifusione Unipol-Bnl-Mps.
C'è poi un giorno del dicembre 2006 che è un fermo immagine perfettamente a fuoco dei democratici banchieri: quel dì la fondazione dalemiana ItalianiEuropei organizza un grande workshop tra i leader diessini (Bersani, D'Alema, Fassino, Visco) e i protagonisti della finanza, delle banche e delle imprese. A ospitare il meeting, a Sesto San Giovanni, c'è l'allora presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati. Quel Penati che è forse lo scheletro più scheletrico nell'armadio di Bersani. Braccio destro dell'attuale segretario del Pd, capo della sua segreteria politica, Penati è presidente della Provincia di Milano dal 2004 al 2009. Nel 2011, quando è consigliere regionale, viene indagato dalla Procura della Repubblica di Monza: avrebbe intascato delle tangenti per la riqualificazione dell'ex Area Falck di Sesto San Giovanni. L'Italia scopre il cosiddetto «sistema Sesto», un groviglio di interessi pubblici e soldi privati assai imbarazzante. Penati evita l'arresto, non la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione e concussione. Penati mette anche la firma nel 2005 sull'acquisto da parte della Provincia di Milano dal gruppo Gavio delle azioni dell'autostrada Milano-Serravalle a un prezzo folle. Uno scambio di favori: Gavio reinveste parte del guadagno nella scalata del «furbetto rosso» Consorte a Bnl. Il delitto perfetto. Alcune intercettazioni bancarie incastrano Bersani: sarebbe stato lui a orchestrare l'incontro tra Penati e Gavio.
E poi c'è il caso di Franco Pronzato, già consulente di Bersani quando questi è ministro dei Trasporti nonché coordinatore del settore trasporto aereo del Pd.
Da componente del consiglio di amministrazione dell'Enac in quota Pd, viene arrestato il 28 giugno 2011 nell'ambito di una inchiesta della Procura di Roma su una bustarella da 40mila euro pagata da Viscardo Paganelli e dal figlio Riccardo per «oliare» l'assegnazione di un appalto per la tratta dalla capitale all'isola d'Elba: un affare da un milione, ammesso da corrotto e corruttori.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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