Il fascista che bruciò con la sua Fiamma

Scompare l'intellettuale prestato alla politica che sognava una destra nuova per "sfondare a sinistra". Con la sua breve segreteria scalzò il giovane Fini

È morto ieri a Roma, nella sua casa, Pino Rauti, l'ex segretario del Movimento sociale italiano. Rauti era malato da tempo e il 19 novembre avrebbe compiuto 86 anni. È stata allestita in via della Scrofa, sede della Fondazione Alleanza nazionale, la camera ardente che sarà aperta oggi e domani dalle 10 alle 20. I funerali si terranno lunedì alle 12.30 nella chiesa San Marco in Piazza Venezia.

Con la scomparsa di Pino Rauti si chiude virtualmente la pa­rabola di una certa destra ita­liana, quella neofascista che, soprav­vissuta alla Prima Repubblica, cercò di ritagliarsi un ruolo nella Seconda, si rifondò, abiurò e si scisse, infine si autosciolse. Politicamente, Rauti morì al tempo del lavacro di Fiuggi e dell’annesso candeggio della cami­cia nera. Rifiutando l’uno e l’altro, probabilmente sapeva di condannar­si suo malgrado a emblema di quella visione sterile e nostalgica del Msi e del fascismo di cui pure era stato ne­gli anni Settanta il più tenace e lucido avversario, ma alla base di quella scel­ta c’era più sentimento che ragione, più senso etico che calcolo. Nel nau­fragio di quella che era stata la nave della sua vita, Rauti scelse insomma di affondarvi insie­me, ma va anche detto che il de­stino gli concesse, nel quindi­cennio successivo, di vedere via via finire in fondo al mare le scia­luppe di salvataggio allora ap­prontate con così tanta celerità, ma senza troppa cura. La coeren­za, si sa, in politica non è un valo­re, ma nella vita di tutti i giorni impedisce la vergogna.
Intellettuale prestato alla poli­tica, Pino Rauti fu soprattutto un uomo di minoranza e di oppo­sizione, più a suo agio con i libri che con le alchimie delle corren­ti e delle maggioranze di partito. Non aveva la retorica oratoria di un Giorgio Almirante, né gode­va del prestigio di un Pino Ro­mualdi, uno che il Movimento sociale lo aveva fondato in clan­destinità, da ricercato politico. Eppure, nella secon­da metà de­gli­anni Set­tanta del se­colo
scor­so, fu per la frangia più inquieta e interessan­te di quel mondo gio­vanile il ca­talizzatore di un’idea di moder­nizzazione che per un certo perio­do sembrò fare brec­cia in quel­lo­che era ri­masto sostanzialmente un parti­to di reduci e di vinti dalla storia. In sostanza, Rauti elaborò una teoria per la quale invece di rassegnarsi a essere l’ultima trincea dell’anticomunismo e/o la ruota di scorta della Demo­crazia cristiana, il Msi doveva porsi l’ambizione di «sfondare a sinistra». Fallito il sorpasso del Pci nel 1976, questo partito era destinato, secondo la sua anali­si, a logorarsi nella equivoca for­mula della «solidarietà naziona­le » e quindi si apriva la possibili­tà di proiettarsi all’interno della società civile, alla ricerca di nuo­vi interlocutori e nuove conver­genze.
Per fare questo occorre­va, naturalmente, rinnovare il proprio di partito, «andare ol­tre », aprirsi a nuove e diverse for­me di comunicazione e di inse­diamento sul territorio, cercare di sintonizzarsi più con il males­sere che con il benessere, più con gli emarginati che con i «ga­rantiti ». Soprattutto, bisognava farla finita con l’identificazione in una destra conservatrice che, di fatto, lasciava il monopolio delle istanze sociali e del pro­gresso alla sinistra, un pedaggio costoso e che non portava da nessuna parte.
Era quella di Rauti una pro­spettiva interessante, ma com­portava un giro di boa che la mi­noranza a lui facente capo non era in grado di imporre, e che la maggioranza almirantiana si guarderà bene dall’appoggiare. Finirà nel nulla, ma il non rimo­dernarsi allora presenterà il con­to un decennio dopo.
A un giovane d’oggi,tutto que­sto appare preistoria, e già il so­lo parlarne mette in evidenza il salto che successivamente ha fatto la politica. Nel giro di dieci anni, infatti, la caduta del Muro di Berlino aprirà il via allo smot­ta­mento e alla scomparsa del co­munismo in Europa, il venir me­no del fattore K provocherà la fi­ne della Democrazia cristiana come elemento cardine del siste­ma politico italiano, Tangento­poli e gli scandali legati alla cor­ruzione economico- politica apriranno il varco a quella crisi
istituzionale e di potere che va sotto il nome di Prima Repubbli­ca. Nulla sarà più come era stato prima.
Nemmeno, anche se suo mal­grado, il Movimento sociale, di cui nel 1990 Rauti è diventato in­tanto il segretario, al posto di quel Gianfranco Fini intronizza­to tre anni prima da un Almiran­te ormai malato e che ha conti­nuato nel piccolo cabotaggio di un partito sempre più minorita­rio, stretto fra un reducismo sempre più patetico e un antico­munismo ormai senza più co­munisti. È, quella di Rauti, però una segreteria fuori tempo mas­simo e talmente breve, appena un anno, da apparire più come un incidente di percorso di un Fi­ni non ancora saldamente al co­mando, che una reale volontà di cambiamento. Una segreteria resa oltretutto possibile grazie a una convergenza dei vari oppo­sitori del dopo Almirante, e non per una reale forza politica del suo eterno avversario. La nuova pillola ricostituente della suc­cessiva gestione finiana, sarà «il Fascismo del Duemila»: l’acqua di Fiuggi, di lì a qualche anno, la evacuerà con tutto il resto.
La storia non si fa con i se, e quindi è inutile chiedersi cosa sarebbe potuto essere il Msi se quello «sfondamento a sinistra» da Rauti teorizzato fosse stato ve­ramente messo in pratica. C’era in lui, come in tutti quelli della sua generazione e della sua par­te, un misto di sindrome da scon­fitti e di fedeltà comunque alle ragioni e ai torti di una sconfitta, che ne faceva dei soggetti politi­ci più a loro agio con la testimo­nianza che con l’esercizio del po­tere.


Legati a un’epoca, psicolo­gicamente erano insomma inca­paci di liberarsene. E tuttavia, c’era in questa fedeltà a ciò che si era stati, una dignità di cui, vi­sti i nostri tempi, va oggi ricono­sciuta la caratura.

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