Questo fatto della decadenza di Silvio Berlusconi da senatore per volontà dei suoi colleghi rivela che il vero motore dell'intera vicenda giudiziaria, destinata a schiacciare il capo del centrodestra, è la malafede. La cui evidenza dovrebbe indurre i parlamentari del Pd (quelli del M5S sono culturalmente irrilevanti) a vergognarsi. Essi, pur di raggiungere lo scopo di eliminare l'avversario elettoralmente più pericoloso, sorvolano sul proprio passato, sulla propria storia, sulla necessità di rispettare le istituzioni in nome delle quali affermano di agire.
Si dà il caso che siano stati i comunisti, ai tempi in cui nacque la Repubblica, a battersi con maggior vigore affinché fosse il Parlamento a dire l'ultima parola sui destini di un suo membro per quanto accusato di nefandezze perseguite dalla giustizia. Insomma, stando alle regole imposte dal vecchio Pci (che, flirtando con l'Unione Sovietica, non era da considerarsi un campione di democrazia), un rappresentante del popolo doveva essere giudicato in Senato o alla Camera e non in un'aula di tribunale. Ciò perché il primato della politica non era in discussione.
Non solo. Il giudizio sul presunto reprobo andava espresso in forma riservata ovvero con voto segreto, e non palese, per consentire a ciascun inquilino del Palazzo di ubbidire alla propria coscienza anziché agli ordini di partito. In effetti, questa norma è sempre stata osservata finché non si è trattato di decidere sulla sorte del Cavaliere. Nella circostanza, con una manovra di bassa bottega politica, lorsignori hanno deliberato quanto segue: dato che Berlusconi è Berlusconi, e non uno qualsiasi, venga trafitto pubblicamente. E chi non partecipasse alla lapidazione sarebbe costretto a metterci la faccia, sfidando la riprovazione collettiva dei compagni, impegnati da anni nel tentativo - fallito sino a ieri - di far secco l'odiato fondatore di Forza Italia e del Pdl.
È triste constatare come i progressisti tradiscano i principi fissati dai loro padri al solo scopo di eliminare un personaggio scomodo, aprendo una breccia, che rischia di diventare una voragine, attraverso la quale un domani potrebbe passare una stramba prassi: siano i giudici a selezionare, in base alle loro sentenze, chi debba o no conservare l'investitura del mandato popolare. Una forzatura inaccettabile. La stessa legge Severino, approvata di fretta, toglie agli elettori la facoltà di scegliere chi è degno del voto e chi no, a prescindere dalla fedina penale. Da notare che tale legge contraddice gli argomenti di coloro i quali desiderano ripristinare le preferenze onde permettere alla gente di dare il suffragio a chi le garba.
C'è dell'altro, però, meritevole di riflessione. Chiunque abbia delle reminiscenze scolastiche sa che nell'Ottocento fu introdotto il cosiddetto Statuto albertino, una specie di Costituzione prima maniera. Rileggerlo consente di scoprire particolari assai interessanti. Prendiamo l'articolo 37. Recita testualmente: «Fuori del caso di flagrante delitto, niun Senatore può essere arrestato se non in forza di un ordine del Senato. Esso è solo competente per giudicare dei reati imputati ai suoi membri». Non bastasse, ecco l'articolo 63: «Le votazioni si fanno per alzata e seduta, per divisione; e per isquittinio segreto. Quest'ultimo mezzo sarà sempre impiegato per la votazione del complesso di una legge, e per ciò che concerne al personale».
A parte il lessico arcaico, i concetti sono chiari, gli stessi applicati dalle democrazie occidentali più avanzate e ora banditi dall'Italia non perché desideri sostituirli con altri più adatti ai nostri giorni, ma soltanto per sbarazzarsi del demonio di Arcore.
Una pratica disgustosa che provoca una regressione di due secoli del nostro Paese allo sbando, «buono a nulla ma capace di tutto», anche di fare strame non solo della versione originale della Costituzione, ma persino dello Statuto albertino.Tutto può essere riparato, è vero, ma occorre un cucitore con ago e filo; qui invece vanno di moda i rottamatori. Della logica.
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