Nel Pd acefalo e devastato dai rancori si cerca di ritrovare una bussola. Domani si terrà probabilmente la Direzione del partito, per decidere la linea da tenere sul governo e per sancire una sorta di «direttorio plurale», in cui coinvolgere in qualche modo anche Matteo Renzi, che sia legittimato a gestire sia le consultazioni (chi va a parlare con Napolitano e con gli altri partiti?) che la fase congressuale che di qui a poco andrà aperta. E sulla cui conclusione pochi hanno dubbi: «Matteo, sei l'ultima carta che abbiamo», ha detto Dario Franceschini, in uno degli ormai quotidiani contatti che lui e tanti altri big hanno ormai con il sindaco di Firenze. Enrico Letta, Walter Veltroni, Massimo D'Alema la pensano allo stesso modo, e pure i «giovani turchi» che puntano su di lui per il ricambio generazionale del gruppo dirigente. Paradossalmente, chi ha più dubbi sull'opportunità di accollarsi la leadership di un partito da ricostruire è proprio Renzi. Anche perché sa che quel che resta dell'apparato ex Pci vuol tenersi le chiavi della ditta e pensa già ad un candidato di «sinistra» per la segreteria, che - spiega strizzando l'occhio a Fabrizio Barca il governatore toscano Rossi, arcinemico renziano - «non dovrà essere il candidato premier».
L'urgenza di oggi però è il governo. E su questo fronte non mancano certo le difficoltà, in casa Pd: nessuno può permettersi di dire no a Napolitano, ma pochi vogliono digerire un governo Pd-Pdl. «Le larghe intese sono impraticabili e farebbero spaccare definitivamente il Pd», avverte Matteo Orfini. «Ora che Bersani non c'è più i grillini dicano se vogliono dare un governo al paese», insiste Andrea Orlando. Nessuno pensa veramente che gli adepti del comico possano votare un qualunque governo, ma il tentativo di stanarli ci deve essere. E in ambienti sia renziani che «turchi» si pensa ad una mossa che spiazzerebbe i 5 Stelle, depotenziandone l'opposizione e rendendo assai più agevole la strada al Pd: alcuni punti programmatici forti (a cominciare dall'abolizione del finanziamento ai partiti) e la carta Rodotà. Offrire al professore un ministero di peso (le Riforme, ad esempio) in un gabinetto in cui, accanto ai «saggi» di Napolitano, dovrebbero sedere alcune «eccellenze» della società civile. Un nome molto gettonato per la premiership, almeno in casa Pd, è quello del presidente dell'Istat Giovannini.
Intanto, nel fiume di dichiarazioni del giorno dopo, lo sfogo dei rancori interni ha preso il posto della politica: la Bindi mette il veto su Enrico Letta premier, attacca la gestione Bersani del partito e le nuove leve incapaci «come Alessandra Moretti». Franco Marini, che invece promuove Letta premier, denuncia di essere rimasto vittima di «un partito allo sbando» e attacca «l'ambizione sfrenata» di Renzi. E la prodiana Sandra Zampa si autosospende dal gruppo parlamentare «fino a che i 101 che non hanno votato per Prodi non avranno detto chi sono e perché l'hanno fatto». Anche se sulla bocciatura di Prodi la storia è più complicata: che i numeri rischiassero di non esserci, soprattutto in casa tra gli ex Ppi fregati su Marini, i più avveduti se ne erano accorti.
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