Al MiArt c'è fame d'arte: la gente si pappa le opere

Il forno Centola, a Potenza, lo conoscono tutti. Però nessuno ha mai sospettato che i Centola fossero degli artisti. Beh, artisti nel fare focacce e sfilatini, sì; ma artisti in grado di esporre (e vendere) capolavori d'arte, no. E invece quelli del forno Centola potrebbero essere degli artisti anche in questo senso. A loro insaputa, ovviamente.
La famiglia Centola lo ignora, ma i grandi sacchi impolverati di farina e pieni di panini in bella mostra all'ingresso del loro forno sono l'esatta fotocopia dei grandi sacchi impolverati di farina e pieni di panini in bella mostra al MiArt di Milano, fiera-laboratorio di arte moderna e contemporanea.
Il MiArt è la prova provata che in Italia c'è una gran fame d'arte. Se a questo aggiungiamo che - per colpa della crisi - c'è anche una gran fame (e basta), ecco spiegato come nell'edizione 2013 del MiArt il binomio arte-cibo stia sfamando l'anima, ma anche un po' lo stomaco. Un MiArt finalmente svecchiato, senza più quella forfora sulle spalle che imbiancava le giacche perfino dei galleristi più giovani. Una rassegna, come la definisce Artribune, «dinamica che parla alla testa e al cuore. Ma non dimentica la pancia». Dopo aver letto che «tra gli stand del MiArt si vede moltiplicare il lato edonistico, con un ricco menù di opere edibili», decidiamo di verificare di persona. Non prima però di aver verificato, sul Devoto-Oli, il significato della parola «edibile». Accertato che si tratta di «cibo commestibile», ci tuffiamo a stomaco vuoto tra gli espositori MiArt. Trovando subito piena conferma a quanto scritto da Artribune.
Tanto per cominciare - come appetizer - affondiamo la mano nel box di patatine fritte installato da Gabriele Picco. Con noi altre decine di «scrocconi» che si contendono le chips d'autore (dal gusto un po'stantìo) come se si trattasse di tartine al caviale Almas Beluga.
Stessa scena davanti alla la «banca del pane» elaborata da Stefano Boccalini: tre sacchi appesi alle pareti dello stand pieni di pagnotte di semola, spazzolate via dai visitatori con una veemenza manzoniana che ricordava l'assalto al forno delle Grucce nei Promessi Sposi.
Ma col pane, si sa, ci sta bene un tocchetto di formaggio, e poco importa se alla forma di Parmigiano Reggiano c'è attaccata una chitarra.
Se il formaggio vi dovesse fare schifo, potete sempre ripiegare su una pizza Margherita (avendo però l'accortezza di staccare il filo di ferro che lega le fette le une alle altre) o su una, sicuramente deliziosa, pappa di latte e salmone servita in una pratica scodella a forma di gatto. Sempre meglio, comunque, degli avanzi ceramicati di Bertozzi e Casoni: roba al cui confronto i rimasugli di Spoerri assurgono al rango di delicatessen.
Per sciacquarsi la bocca, ecco pronte le splendide fragole (in versione fotografica) di Hans-Peter Feldmann; ma frutta e verdura di varia foggia abbondano in molti «orticelli» del MiaArt, che a tratti sembra una convention di iscritti alla Confagricoltura.
Ma non mancano le varianti sul tema: stile adunata degli alpini per la tavola imbandita con tovaglia da osteria di Clifton Benevento; cassetta di arance con pc integrato per la galleria catanese Collicaligreggi.
Il nostro giro artistico-gastronomico è finito.

Accusiamo una certa pesantezza di stomaco. Prima di uscire, passiamo davanti alla policroma scultura di capsule medicinali assemblate da Luca Bertolo ed Erik Ravelo.
Chiediamo: «Gentilmente, avete una pastiglia per digerire?».

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