Dal proprio passato non si sfugge. Si può tentare di rimuoverlo, ma allora esso in genere torna sotto forma di un incubo. Oppure si può decidere di affrontarlo di petto, di elaborarlo - come s'usa dire. È l'unico modo, questo, per non restarne prigionieri e, forse, per riuscire ad impadronirsene. Se la sfida si gioca singolarmente, spesso non c'è scelta. Il peso, la lacerazione, il trauma del ricordo può risultare insopportabile. La rimozione allora diventa una via obbligata. Quello che è praticabile a livello individuale, pur con i pesanti costi psicologici che comporta, non lo è però per la collettività. Per una comunità la cancellazione, o il silenziamento, del passato, oltre ad essere impossibile, è controproducente. Finisce infatti col consegnare la sua memorizzazione a quanti quel passato non hanno alcuna intenzione di passarlo all'oblio, ma anzi lo rivendicano come un tassello prezioso della propria identità. Oscuramento versus nostalgia è la dissociazione irrisolta della memoria di cui diventa preda una nazione che non sa, o non si decide ad affrontare con spirito critico un passato ingombrante o traumatico. È il destino puntualmente riservato alla memoria del fascismo. Essendo stata assunta la lotta di Liberazione come evento/mito fondante e legittimante della Repubblica, era inevitabile che la sua rappresentazione divenisse occasione di riti e celebrazioni e per questa via finisse, in qualche modo, monumentalizzata.
Finché si è trattato di compiere un'opera di storicizzazione, l'antifascismo ha avuto buon gioco. La dimensione nostalgica non è stata in grado di conquistarsi un vero spazio né un significativo rilievo, anche per la pochezza della sua elaborazione storiografica. Il vero incaglio per la cultura democratica s'è presentato al momento di passare dalla storicizzazione alla musealizzazione del passato. Quanto sia imbarazzante e controversa la valorizzazione, anzi la stessa persistenza, di un patrimonio urbanistico, architettonico o artistico riconducibile al fascismo, lo abbiamo sperimentato ogniqualvolta si è riproposto il problema di quale assetto dare (se conservare, ristrutturare o abbattere) a opere, monumenti, edifici dall'inconfondibile impronta fascista.
Ma le difficoltà maggiori si sono presentate al momento di affrontare la sfida di riservare al tema - peggio ancora se al suo fondatore - un museo, o qualcosa di simile ad una narrazione iconografica/documentale. Riservare ad un argomento o a un personaggio uno spazio espositivo in cui attraverso materiali, documenti o testimonianze si ripercorra un'epoca o una biografia è evidente che comporta il rischio di erigerne un monumento, ossia che si finisca col trasmettere al pubblico una ricostruzione apologetica o comunque edificante. Tanto più se il museo viene eretto in luoghi identificatisi nell'immaginario collettivo - com'è il caso di Predappio, Salò, Dongo per Mussolini - con la vicenda umana e politica del personaggio biografato
Eppure, bisognerà pur risolvere una buona volta il quesito: se lasciare cioè che i luoghi, gli spazi, i monumenti evocativi del regime fascista restino stabili occasioni di culto per gli inconsolabili nostalgici del duce e per i suoi sempre risorgenti estimatori o invece se non convenga recuperarli alla memoria democratica della nazione riconvertendo in un patrimonio positivo i segni di un passato negativo. Esiste già un ambizioso progetto europeo (Atrium) che coinvolge ben diciotto partner istituzionali tra università, ministeri, organizzazioni governative, volto a recuperare ad una riconsiderazione critica il patrimonio architettonico consegnatoci dai vari regimi totalitari. Si può fare altrettanto con i musei. Si tratta di elaborare una memoria democratica di un passato che, per quanto (anzi, proprio perché) ingombrante, imbarazzante, compromettente, non può essere eluso.
La scelta non è «se», ma «come» ricordare. Il ricordo non è mai neutrale. Può - anzi, in questo caso, deve - essere critico.
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