Pier Ferdinando Casini, dall'alto della torre di Babele che sta costruendo con i propri amici ex (o filo) democristiani, fa la voce grossa. Sarà perché era abituato a starsene laggiù, in basso, cioè seduto su una percentuale del 5 e rotti per cento (i voti dell'Udc), ora che i sondaggi lo danno al 12 ha le vertigini, gli gira la testa, come succede a quelli che bevono troppo, e dice cose bizzarre. Per esempio, sostiene (che se alle prossime elezioni il Partito democratico vincesse alla Camera (è scontato), ma non riuscisse a fare altrettanto al Senato (è probabile), Pier Luigi Bersani dovrebbe rassegnarsi a cedere la poltrona di premier.
A chi? A Mario Monti, socio in affari politici dello stesso Casini nonché di Gianfranco Fini e vari personaggi di secondo piano, tutti in fila davanti al Palazzo con la pretesa di entrarvi e trovare un posto comodo, possibilmente per cinque anni. Quale sia il ragionamento che induce il leader dell'Udc - ormai noto per aver adottato l'agenda del Professore in luogo del Vangelo - non è dato sapere, ma si può intuire. Se in Senato il Pd non conquista la maggioranza, non è in grado di governare (a meno che non si allei con la lista di Monti, felicemente definita «rotariana» da Stefano Fassina).
In tal caso però l'attuale segretario dei progressisti dovrebbe fare la cortesia di rinunciare a Palazzo Chigi, lasciandolo al signore in loden, malgrado questi, col partito ideato e fondato da Pierfurby, non abbia vinto un bel niente e si sia piazzato al terzo o quarto posto della classifica generale sortita dalle urne.
È evidente che i conti non tornano. In quale democrazia, sia pure delle banane, un partito del 12 per cento (facciamo il 15, per essere generosi) soffia a un partito del 30 o 32 la guida dell'esecutivo? Qualcuno obietterà: nella prima Repubblica, Bettino Craxi e Giovanni Spadolini furono premier pur essendo i capi di forze politiche minoritarie rispetto alla Dc. Quindi, anche Monti è giusto che aspiri. Balle. A quei tempi vigeva il sistema proporzionale puro ed era fatale che i giochi si facessero in Parlamento, a consultazioni avvenute.
Adesso la musica è diversa: vige il Porcellum, c'è il premio di maggioranza, e il partito che lo piglia esprime - questa è la prassi - il presidente del Consiglio. Chiaro? A Casini ciò non importa. Lui vuole comunque la cadrega più ambita per passarla all'accademico bocconiano.
Tutto si può fare in Italia, è vero, ma non rovesciare la legge dei numeri. E se la gente dà più voti a Tizio, per quale motivo dovrebbe comandare Caio?
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