A Verbania, sulle sponde del lago Maggiore, una piccola ditta di nome Alba Italia vendeva tappetini e scendiletto. Arrivò la crisi, e la Alba venne dichiarata fallita in un tiepido giorno di maggio del 1979. I curatori fallimentari iniziarono il loro malinconico lavoro, i conteggi del dare e dell'avere. Ci sono voluti trentatrè anni - trentatrè interminabili anni - perché la giustizia chiudesse il fascicolo. E quando un piccolo gruppo di creditori della Alba hanno chiesto di essere risarciti per la folle durata del processo, si sono visti riconoscere undicimila euro, poco più di quattromila euro a testa. Lo Stato non ha pagato nemmeno quei risarcimenti. Hanno dovuto ricorrere al Tar della Lombardia per costringere lo Stato a pagare il dovuto. Prima che il Tar provvedesse, la Corte d'appello ha scucito. Di storie come queste l'Italia è ormai sommersa. Costretta dall'Europa a fare qualcosa contro la intollerabile durata dei suoi processi, Roma invece di accorciare i processi ha stabilito che chi passa una vita in attesa di una sentenza ha diritto poi a venire risarcito. Il risarcimento è modesto, quasi irrisorio. Ma la massa di processi dalla durata assurda è talmente vasta che non bastano i soldi per risarcire tutti quelli che ne avrebbero diritto. A dodici anni da quando è entrata in vigore la cosiddetta «legge Pinto», lo Stato ha accumulato un debito di oltre 340 milioni di euro verso le vittime della giustizia-lumaca. Soldi che verranno pagati chissà quando: nel bilancio del ministero della Giustizia esiste un apposito capitolo di spesa, il 1264, per fare fronte ai risarcimenti. Quest'anno, come gran cosa, sono stati stanziati 50 milioni per smaltire una parte dei debiti. Ma nel frattempo si accumulano altre condanne, anche se nel 2012 il governo Monti ha cercato di ridurre i risarcimenti. E il ciclo non si chiude mai. Così si è innescato un altro piccolo universo di contenzioso giudiziario, come se non ce ne fosse abbastanza.
Il meccanismo è questo. Le lentezze dei processi celebrati in una città, vengono sanzionate - per evitare eccessi di colleganza - da un'altra Corte d'appello: Torino decide su Genova, Milano su Torino, Brescia su Milano eccetera.
Ognuno fa un po' a modo suo: Torino risarcisce i ritardi di Genova al minimo della cifra (la legge stabilisce una somma tra i 500 e i 1.500 euro all'anno); Milano risarcisce i ritardi di Torino con 500 euro per i primi tre anni e con 750 dal quarto anno; e così via. Ma soprattutto quelli che cambiano sono i tempi di pagamento. «Alla Corte d'appello di Milano - spiega Massimo Tribolo, l'avvocato che ha seguito la richiesta dei creditori della Alba - va dato atto di avere imboccato la strada dell'efficienza. Ma non dappertutto è così, anzi. Torino è ferma ai risarcimenti del 2009, e non credo che sia la situazione peggiore d'Italia». Per fare fronte ai ritardi dei risarcimenti, i creditori hanno inventato un'altra strada: si rivolgono al Tar della regione in cui si trova la Corte d'appello che ha emesso la sentenza, ottengono la nomina di un cosiddetto commissario ad acta, un signore cioè che si impadronisce della cassa dell Corte e provvede al pagamento. I soldi in quei casi saltano fuori, anticipati dalla Banca d'Italia ma di fatto sottratti a qualche altra voce di bilancio. Nel frattempo gli anni passano, le aziende creditrici falliscono, i giudici vanno in pensione, i curatori muoiono... Che senso ha parlare di giustizia per una giustizia che dovrebbe arrivare in sei anni e invece ne impiega trentaquattro? Con nove milioni di processi pendenti, e visti i tempi medi di durata, nel giro di qualche anno acquisiranno il diritto al risarcimento altri milioni di italiani. Non tutti, fortunatamente, chiederanno il risarcimento previsto dalla legge Pinto, altrimenti non basterebbe l'intero bilancio del ministero della Giustizia.
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