La lunga marcia. C'è quella di Mao, ma c'è anche quella dei giudici di Magistratura democratica. Il potere è lì, a portata di mano e i fondatori della costola sinistra del partito dei giudici fra gli anni Sessanta e Settanta elaborano la strategia per conquistarlo. Marco Ramat, uno dei padri della corrente, ha le idee chiare: «Il nostro compito consiste nella ricerca di una politica della magistratura e per la magistratura che sia capace di inserirsi utilmente nella lotta difensiva e offensiva condotta dal movimento democratico nel suo complesso».
È l'aprile 1975 e Ramat, che oggi non c'è più, parla alla platea dei colleghi progressisti. Sì, un congresso delle toghe, ma il linguaggio è lo stesso di Botteghe oscure, anzi è più rivoluzionario. Md, con le sue storie, i suoi ideali, le sue contraddizioni e le sue scivolate giustizialiste, viene da lì, da quel crogiolo di dibattiti, articoli, manifestazioni. Il linguaggio nel tempo si è evoluto, ma se paragoniamo quello scritto con tanti altri di quella stagione e della nostra epoca, vediamo che il concetto è sempre lo stesso: Md si concepisce come contropotere, si immagina alla testa di un lungo corteo che porta il popolo dalle periferie al cuore del potere, è pronta ad espugnare la cittadella in cui è arroccata la nomenklatura. Esagerazioni? Per carità, se c'è un luogo che ha prodotto un ventaglio arcobaleno che più arcobaleno non si può di posizioni politico-culturali quello è proprio Md, ma la sostanza non cambia. Basta pescare dentro il mare rosso di quella letteratura col pugno alzato. Ieri, citavamo Livio Pepino, che non è l'ultimo arrivato ma l'ex segretario nazionale di Md e il suo articolo Appunti per la storia di Magistratura democratica. Pepino, oggi in pensione, distrugge il totem del giudice neutrale, la bocca della legge, e nelle aule di giustizia colloca un'altra magistratura, «radicata nella società più che nell'istituzione..., attenta alle dinamiche sociali e di esse partecipe». Una magistratura che faccia politica, da sinistra.
E che accompagni la sinistra nella lunga marcia, verso il potere. Il saggio di Ramat, applaudito dalle toghe rosse in quella convention napoletana del '75, è un documento impressionante di quel percorso. Fin dall'incipit: «Il congresso è di Md ma il tema collega alle lotte sociali del nostro Paese tutta l'istituzione giudiziaria. Il nostro compito consiste nella ricerca di una politica della magistratura e per la magistratura che sia capace di inserissi utilmente nella lotta difensiva e offensiva condotta dal movimento democratico nel suo complesso». Sono le istruzioni per la rivoluzione togata e sono naturalmente figlie del loro tempo, ma hanno formato almeno due generazioni di magistrati.
Proprio in quegli anni le toghe rosse si schierano dentro i palazzi di giustizia, cominciano a scalare i vertici della magistratura e a sfornare sentenze innovative, per esempio, sul piano della morale o della difesa ambientale. È l'epoca dei pretori d'assalto e di una nuova generazione di giudici che sentenziano in nome del popolo italiano e modificano gli equilibri politici del Paese. È un processo accidentato e segnato dal metronomo delle emergenze nazionali - il terrorismo, la mafia e Mani pulite - e proprio Mani pulite segna uno spartiacque perché la magistratura manda in carcere la classe dirigente della Prima repubblica, ma per una ragione o per l'altra si ferma davanti al portone di Botteghe oscure e salva, tecnicamente grazia, il Pci-Pds. La lunga marcia della sinistra italiana verso il Palazzo viene vinta di fatto prima che nelle urne nelle aule di giustizia. Certo, non sono solo le toghe rosse a darsi da fare, quel clima è la cifra di un'epoca e il pentapartito a trazione democristiana è pieno di ladri e corrotti. Ma quella componente dà alcune linee guida all'azione della magistratura e svolta, proprio nel momento fatale, verso un'interpretazione del diritto che, brutalmente, potremmo chiamare giustizialista. Manette e ancora manette, la libertà solo per chi riempie pagine e pagine di verbale, l'esplosione di una categoria di avvocati, i cosiddetti accompagnatori, che sono una specie di magistratura di complemento e servono solo per convincere i clienti sotto interrogatorio a vuotare il sacco. E ancora la scoperta di un reato, il finanziamento illecito ai partiti, che prima non esisteva come nella storia dell'arte non si trova traccia, prima di una certa data, di alcuni colori.
A Palermo c'è Gian Carlo Caselli, che mette sotto inchiesta Giulio Andreotti, prova a riscrivere, anche con l'aiuto di un sociologo come Pino Arlacchi, la vera storia d'Italia, azzanna la nascente Forza Italia e lascia poi ai più giovani come Antonio Ingroia, le inchieste monstre che faranno da fondale agli anni successivi, da quella su Marcello Dell'Utri a quella sull'area grigia a cavallo fra stato e mafia. A Milano gli alfieri della legalità sono Gerardo D'Ambrosio, il coordinatore del Pool, poi procuratore e infine parlamentare, e Gherardo Colombo che dopo aver scoperchiato i misteri della P2 sarà il primo, con Piercamillo Davigo e Francesco Saverio Borrelli a interrogare Silvio Berlusconi e a contestargli il celebre avviso di garanzia recapitato in edicola direttamente dal Corriere della sera. A Milano, fucina della magistratura progressista, Md, pur in una grande pluralità di accenti, esprime alcune delle figure più note di questo mondo: da Edmondo Bruti Liberati, l'acuto procuratore della repubblica che conduce con Ilda Boccassini l'ultima offensiva contro Arcore istruendo il caso Ruby, e poi Nicoletta Gandus, il giudice del processo Mills che non fa mistero di considerare il Cavaliere un suo avversario politico.
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