C'è davvero un giudice a Roma? Forse sì, forse no. Ma il problema di fondo è che sembra sempre più difficile salvare i principi giuridici fondamentali all'interno di un ordinamento statuale che, nonostante la retorica, colloca l'amministrazione su un piano di netta superiorità rispetto al cittadino.
Dopo che a Parigi nei giorni la Corte costituzionale ha bocciato le nuove tasse sui super-ricchi, che stanno spingendo via dall'Esagono non solo Gérard Depardieu ma anche molti imprenditori, in Italia l'ultima sentenza della Corte di Cassazione in materia di redditometro (del 20 dicembre scorso) ha affermato - a difesa del contribuente - che i dati ricavabili da questo strumento fiscale rappresentano unicamente una presunzione "semplice", e quindi non soltanto non possono essere ritenuti una prova adeguata, ma nemmeno impongono che sia il cittadino a dover dimostrare la sua «non congruità». In altre parole, l'inversione dell'onere della prova non è ammissibile.
La notizia è positiva, perché ci offre qualche elemento di tutela in più dinanzi alle pretese dello Stato. L'uso del condizionale, però, è doveroso. In materia, infatti, i precedenti sono assai contraddittori ed è in virtù di questo che resta ancora ben poco chiaro quale risposta si possa dare alla domanda da cui siamo partiti.
Il problema di fondo è però un altro. Se siamo tanto disarmati dinanzi agli apparati tributari è perché il rapporto tra il cittadino e lo Stato è del tutto squilibrato. Il potere si autorappresenta come il legittimo titolare dei beni di tutti noi e questo perché la sua azione ha, o meglio "avrebbe", una dignità superiore. A partire da qui, non solo il sistema pubblico può stabilire in modo legale una tassazione da esproprio, ma può pure controllare i nostri conti bancari e l'utilizzo che facciamo dei soldi lì depositati, spingendosi pure a proibire o limitare l'uso del contante.
In questo senso, l'ultima polemica sorta sul Corriere della Sera a seguito di un editoriale di Piero Ostellino dimostra quanto sia progressivamente venuta meno la consapevolezza che gli uomini hanno diritti, tra cui quello di disporre delle risorse ottenute in modo onesto. Quando l'ad dell'Ade, Attilio Befera, dichiara che il nostro non è uno Stato di polizia in quanto le norme impiegate sono pubbliche i funzionari sono tenute a rispettarle, la questione evocata è molto seria.
Qui Befera evoca un tema caro ai teorici dello Stato di diritto e del principio di legalità. Ma siamo proprio sicuri che siano tirannici solo i regimi in cui la violenza e l'aggressione sono praticate di nascosto o in maniera arbitraria, e non lo siano anche le istituzioni del nostro tempo, dove in modo del tutto legale e trasparente una parte della popolazione viene spogliata di una gran parte delle proprie risorse e un'altra se ne avvantaggia spudoratamente, ad esempio con stipendi da favola?
Sul piano pratico, che è poi quello che riguarda molti, tale pronunciamento della Cassazione può rappresentare un punto a favore dei diritti dei contribuenti. Ma sullo sfondo delle incertezze interpretative di quei giudici che ora assegnano allo Stato l'onere probatorio e in altri casi, invece, fanno una scelta opposta è impossibile non riconoscere la crescente difficoltà a tenere assieme diritto e potere, libertà e sovranità.
Negli scorsi anni questo sistema giuridico statocentrico era più facilmente sopportabile, dato che - nonostante tutto - la società cresceva e le condizioni di tutti o quasi miglioravano. Oggi, però, quegli stessi meccanismi che prima accettavamo ci appaiono sempre meno legittimi. E ci chiediamo con crescente insistenza se c'è davvero un giudice a Roma.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.