Renzi sente Bersani e se ne va: «Non faccio il D'Alema due»

RomaDi parlare, alla direzione del Pd, non aveva alcuna intenzione, anche se ha lasciato che la voce circolasse. Qualcuno, tra i suoi, aveva anche sconsigliato Matteo Renzi di farsi vedere, ma lui non voleva sollevare nuove polemiche ed essere accusato di fare troppo l'aventiniano. Così è arrivato, ha ascoltato attento la relazione del segretario e poi se ne è andato a sbrigare le ultime faccende romane prima di tornarsene a Firenze.
Sta di fatto, e la dice lunga della situazione, che il mancato intervento e la fugace apparizione di Renzi al Nazareno hanno fatto notizia quasi quanto la direzione stessa. Dal cui svolgimento, che pure ha portato all'unanime (seppur scettico) sostegno al tentativo di Bersani di formare un governo con l'avallo grillesco, il sindaco ha tratto conferma su alcune fosche previsioni che gli erano state fatte alla vigilia. Ad esempio da Letta e Franceschini, che lo hanno incontrato, e che si sono detti assai allarmati, perché «se salta il tentativo di Bersani con Grillo, rischia di saltare il Pd». Su ogni altro scenario, a cominciare dalle ipotesi di ritorno ad una maggioranza col centrodestra (che per Renzi «in un Paese normale si sarebbe già fatta», ma essendoci Berlusconi «non si farà») il partito rischia di spaccarsi irreparabilmente. E gli interventi dei «giovani turchi» Fassina, Orfini, Orlando, che sono andati all'attacco chiedendo una profonda correzione «a sinistra» della linea, hanno apertamente parlato di «sconfitta» nel voto, criticando la «subalternità» alle ricette di Monti e reclamando un «ricambio» di classe dirigente e mettendo nero su bianco il loro «mai senza Grillo», hanno indicato quale può essere la prima linea di frattura.
Renzi sa che la situazione è complicatissima e incerta, ed è al centro di molti corteggiamenti. A cominciare da quello di Monti, che oltre ad escludergli di poter sostenere un governo Grillo-Pd ha anche caldeggiato l'idea di una futura alleanza in una coalizione guidata da Renzi. Il quale pensa che una sua eventuale partita si giochi solo in caso di elezioni: «Io il D'Alema due non lo faccio», ha spiegato a più di un interlocutore che ne sondava le disponibilità a spendersi ora per un governo, in caso di fallimento di Bersani. In direzione, il sindaco è stato attaccato per il suo silenzio da Gianni Cuperlo le logiche di percorsi paralleli e circolazioni extracorporee in politica possono risultare letali». Mentre il ligure Burlando ha rimproverato al Pd di non averlo coinvolto di più di aver perso così quel «pezzo di elettorato che non guarda a noi ma che lui ha portato alle primarie».
Bersani, invece, ha cercato di sfilare al fiorentino quella che sa essere un'arma letale contro l'apparato Pd: il «no» al finanziamento pubblico, che Renzi ha rilanciato a Ballarò facendone uno dei punti su cui andare a «sfidare» Grillo.

Per la prima volta il segretario del Pd, che deve aver notato il grande spazio dato da Repubblica (dopo il tête-à-tête Mauro-Renzi) alla proposta renziana, si è detto «disponibile» a rivedere la legge sui soldi ai partiti. Comprendendo che lasciare a Renzi il monopolio di quella parola d'ordine, che pure fa venire i capelli dritti a tutto l'apparato Pd, era troppo rischioso.

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