Il «ritratto» nella relazione annuale della Dna il caso


Enrico Lagattolla

In fondo, non è cambiato nulla da quando Francesco Saverio Borrelli la cacciò dal pool antimafia accusandola per iscritto di «una carica incontenibile di soggettivismo, una mancanza di volontà di porre in comune risultati, riflessioni, intenzioni». Sono passati ventitrè anni, e Ilda Boccassini non è cambiata. Anche adesso, ad accusarla non è un inquisito ma un suo stesso collega, un magistrato come lei. Stavolta si tratta di Filippo Spiezia, sostituto procuratore nazionale antimafia, chiamato a stendere la parte dedicata a Milano della relazione annuale sullo stato della lotta al crimine organizzato. La relazione è stata divulgata dal capo della Direzione nazionale antimafia Franco Roberti - sbarcato nel luglio scorso sulla poltrona lasciata libera da Piero Grasso, approdato alla presidenza del Senato - e dà atto dei successi della direzione distrettuale antimafia di Milano, il pool diretto da Ilda Boccassini, nella lotta al crimine organizzato. Ma poi arrivano le dolenti note. Perché Spiezia lancia accuse esplicite contro il pool di Ilda, colpevole di non raccontare a nessuno quello che fa, e di non condividere le informazioni neanche al proprio interno.
Sono accuse gravi, perché la legge prevede il contrario: i pool locali hanno l'obbligo di comunicare alla Direzione nazionale le proprie attività, in modo da permettere a Roma di svolgere la funzione di coordinamento; e all'interno dei pool è previsto lo scambio di notizie sui fascicoli, per individuare i punti di contatto. Va ricordato che a prevedere questi obblighi fu la legge istitutiva della Dna voluta da Giovanni Falcone, che la Boccassini ha sempre considerato una sorta di padre spirituale.
E invece ecco quanto si legge nella relazione della Dna: esistono «perduranti criticità nei rapporti con la Dda di Milano, che incidono sull'esercizio delle funzioni di questa Dna». Queste difficoltà di dialogo impediscono di «cogliere tempestivamente e in modo sostanziale i nessi e i collegamenti investigativi tra le altre indagini in corso sul territorio nazionale» che presentano «profili di collegamento» con quelle in corso nel capoluogo lombardo. E non si tratta di dimenticanze, di distrazioni: da parte del pool di Ilda c'è «la preclusione posta a conoscere specificatamente gli atti relativi ad indagini in corso e, tanto meno, le richieste cautelari avanzate, essendo state quest'ultime rese conoscibili solo dopo l'esecuzione delle misure» di custodia cautelare.
Dei suoi colleghi romani, insomma, la Boccassini non si fida. Il guaio è che a quanto pare non si fida neanche degli stessi pm del suo pool: le problematiche «riguardano lo scambio informativo all'interno dello stesso ufficio», perché «le notizie relative alle indagini dei singoli procedimenti non risultano essere patrimonio comune di tutti i magistrati componenti della Dda».


È la traduzione di quanto a Milano era affidato finora ai brontolii da corridoio della Procura: quello di una squadra cruciale, il pool antimafia, affidato a un magistrato famoso per la sua determinazione investigativa e la capacità di lavoro, ma altrettanto nota per fidarsi solo di se stessa e di pochi e selezionati pm. Forse aveva paura che, se l'avesse raccontato ai romani, i colleghi avrebbero avvisato Berlusconi che stava indagando su di lui.

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