La Cassazione si smentisce

La Corte aveva sancito un anno fa il divieto di incarcerare i giornalisti. Eppure lo ha condannato

Il direttore del "Giornale" Alessandro Sallusti
Il direttore del "Giornale" Alessandro Sallusti

La Cassazione se ne frega della Cassazione. Sembra un controsenso, eppure è successo nel caso Sallusti. Perché la Suprema Corte ha condannato il direttore del Giornale a 14 mesi di carcere senza dare uno sguardo alle decisioni precedenti dello stesso tribunale. Decisioni che stabilivano come le toghe dovessero tenere in considerazione la Convenzione dei diritti dell'uomo e le sentenze della Corte europea di Strasburgo.
Eppure, sono lì, nero su bianco e facilmente consultabili. Ma evidentemente le toghe giudicanti hanno preferito fare orecchie da mercante. Un esempio su tutti? La sentenza 19985 del 30 settembre 2011 della terza sezione della Cassazione che parlava di «immediata rilevanza in Italia delle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo», di «obbligo, da parte del giudice dello Stato, di applicarle direttamente» e di «tenere presente l'interpretazione delle norme contenute nella Convenzione che dà la Corte di Strasburgo attraverso le sue decisioni».
Ma cosa dicono la Convenzione e la Corte Europea? Innanzitutto, stabiliscono un principio cardine e fondamentale: nessun giornalista può andare in carcere per il reato di diffamazione. L'assunto è stato ribadito nella sentenza del 2 aprile 2009 nella quale la Corte di Strasburgo ha condannato la Grecia a risarcire il giornalista Kydonis perché «le pene detentive non sono compatibili con la libertà di espressione» e perché «il carcere ha un effetto deterrente sulla libertà dei giornalisti di informare con effetti negativi sulla collettività che ha a sua volta diritto a ricevere informazioni».
Insomma, nonostante la Cassazione abbia più volte sentenziato che il giudice non può prescindere dal considerare le sentenze della Corte Europea, le toghe hanno snobbato le decisioni dei loro pari. Se ciò non bastasse, la Corte di Strasburgo ha anche sottolineato come la previsione del carcere sia «suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della libertà di stampa». Dunque, già il fatto che nel codice penale sia prevista la pena detentiva per i casi di diffamazione prefigura una violazione dei dettami europei. Non per i giudici che hanno sentenziato sul caso Sallusti però.
Ma non c'è solo la Cassazione. Anche la Corte Costituzionale è stata snobbata. Nella sentenza 39/2008, la Consulta aveva stabilito che «le norme della Convenzione europea devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati a uniformarsi». Concetto espresso anche dal Consiglio d'Europa. Ma i giudici non hanno sentito ragioni.
Se tutto ciò non bastasse, ci sono poi altre sentenze della Corte Europea che, pur non occupandosi direttamente della pena detentiva per i reati di diffamazione, ribadiscono che nessun giornalista può andare in carcere per questo reato.
Prendiamo per esempio la sentenza 17 luglio 2008, sul caso del giornalista Claudio Riolo, che ha condannato l'Italia a un risarcimento di 60mila euro per violazione dell'articolo 10 della Convenzione europea (quello sulla libertà di espressione). Bene, la seconda sezione ha stabilito che «le sanzioni pecuniarie sproporzionate tolgono la libertà di espressione a chi viene condannato», figuriamoci la galera. Si annoverano poi altre sentenze della stessa Corte.
Sentenze che salvaguardano «le informazioni e le opinioni che urtano o inquietano» o che proteggono la facoltà del giornalista a «utilizzare una certa dose di esagerazione e, persino, di provocazione» e «un tono polemico e addirittura aggressivo».


Insomma, di elementi per decidere diversamente ce n'erano a iosa, così come sono tante e chiare le sentenze in materia. Meno chiaro è perché i giudici che hanno deciso sul caso Sallusti non le abbiano tenute (nemmeno questa volta) in considerazione.

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