Se l'Italia si fa del male anche con la spremuta

Un emendamento democratico porta al 20% la quantità minima di frutta nelle bibite. Così per seguire gli eccessi burocratici dell'Ue si spingono le aziende a fuggire all'estero

Se l'Italia si fa del male anche con la spremuta

La risposta della politica italiana agli eccessi burocratici dell'Europa, alle direttive sulla curvatura delle banane e dei cetrioli, è aggiungere altri oneri a danno delle aziende. Obblighi a carico dei soli produttori nazionali che incoraggiano gli imprenditori a fare le valigie ed espatriare verso Paesi più accoglienti. Ultima vittima della smania regolatrice italica è l'aranciata. Un emendamento del Partito democratico passato qualche giorno fa alla Camera impone ai produttori italiani di usare nelle bibite almeno il 20% di arance. Il limite prima era al 12%. Modifica della legge comunitaria, che vorrebbe essere patriottica e salutista nelle intenzioni dei firmatari, il capogruppo Pd in commissione agricoltura Nicodemo Oliverio e Colomba Mongiello, sicuri di favorire i produttori di frutta italiani e «aiutare i consumatori» orientandoli su bevande con meno zucchero.
Peccato che, come sempre quando si esagera con leggi e regolamentazioni (e agli italiani capita spessissimo), gli effetti siano opposti rispetto a quelli dichiarati. Nel caso specifico Assobibe, associazione di Confindustria tra gli industriali di bevande analcoliche, ha calcolato circa duemila posti di lavoro persi. Con il rischio concreto che marchi storici, vengono in mente Fanta e San Pellegrino, portino all'estero tutte le loro produzioni. Magari verso paesi dove già operano. L'Albania nel caso del gruppo Coca Cola, oppure in Austria.
A metterlo in risalto qualche giorno fa, il vicepresidente di Confindustria Lisa Ferrarini, che è anche presidente del comitato di tutela del Made in Italy. «È una specie di dumping regolamentare al contrario, in cui è l'Italia stessa a penalizzare la sua industria».
Il Parlamento ha infatti introdotto un limite impensabile nel resto dell'Europa (e per il quale rischiamo paradossalmente un richiamo di Bruxelles). La percentuale di frutta che devono contenere le bibite in tutti gli altri Stati europei è inferiore (si parla di bibite gassate, non di succhi di frutta o di nettare che hanno un contenuto di frutta più alto). Nessun obbligo in Francia, Gran Bretagna, Danimarca, Finlandia, Germania, Svezia. In Austria, Olanda e Belgio il limite è del 10%, in Portogallo all'8%.
Tutte potenziali destinazioni delle imprese che, se al Senato non cambierà la legge, decideranno di delocalizzare l'aranciata italiana. La nuova normativa non prevede infatti nessun obbligo sulle bevande in vendita in Italia, ma solo su quelle prodotte nel Belpaese. Potremo continuare a comprare «aranciate senza arancia» (lo slogan scelto dai politici e dalle associazioni di agricoltori che hanno appoggiato l'emendamento come Coldiretti) prodotte all'estero, ma non made in Italy.
Aurelio Ceresoli Aurelio, presidente di Assobibe, spiega che non ci saranno effetti positivi nemmeno per l'agricoltura. «Il 93% della produzione agrumicola nazionale non è toccata da questa misura. L'industria delle bibite analcoliche acquista meno del 7% degli agrumi nazionali dai trasformatori di arance, e non direttamente dagli agricoltori». In altre parole, le aziende che, nonostante tutto, decideranno di produrre aranciate in Italia, compreranno il succo da altre aziende, che verosimilmente acquistano le arance all'estero.
Traballa anche la tesi salutista. Aumentare la percentuale di succo di frutta delle aranciate significa incrementare del 70% le calorie. E anche il prezzo.

Sempre che rimanga qualche azienda disposta a produrre aranciata made in Italy.
Resta da capire la posizione del governo. Il ministero dell'Agricoltura ha dato tre pareri diversi. Astensione e contrario nelle due commissioni competenti, a favore in Aula.

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