C'è stato un tempo in cui Pasquale Natuzzi era l'uomo che faceva stare comodo il mondo. Tu tiravi una leva di uno dei suoi divani e, così all'improvviso, le tue gambe venivano tirate su da un poggia piedi. Era un simbolo: stai tranquillo, rilassati. È finito, da ieri il simbolo sono i duemila lavoratori messi in mobilità, gli stabilimenti chiusi, la produzione spostata. È la fine della comodità e pure di qualcosa di più. Perché attorno a quell'azienda che faceva divani a cavallo tra la Puglia e la Basilicata s'era creato un distretto economico pazzesco, fatto di altre imprese, di giovani brillanti che restavano nella loro terra e però lavoravano in una multinazionale. Era l'idea dell'impresa del Sud che ce la faceva trascinandosi fatturato, idee e speranze. Questione di simboli, anche qui. Perché il divano era l'idea di casa e quindi di indipendenza e quindi di famiglia e quindi di stabilità. La crisi, questa crisi, ha segato le gambe e ha chiuso i cassetti. Mille e ottocento lavoratori a casa, un colosso che deve licenziare per stare in piedi e non lasciare per strada altre migliaia di persone sono il segno di un Paese che è arrivato alla fine. Ci sono centinaia di aziende così, ovvio. Le raccontiamo ogni giorno, da mesi. Il gruppo Natuzzi aggiunge un carico in più, perché per anni, a cavallo tra la fine degli Ottanta e la fine dei Novanta, quell'impresa era considerata un modello di sviluppo. Perché lui, Pasquale Natuzzi da Matera, trasferitosi a Santeramo in Colle per necessità e per uno stabilimento bruciato da un incendio, era considerato come un messia laico dell'economia. Un signore che aveva capito tutto. Un tipo eccentrico, amante dell'Oriente e dell'America, delle cose belle. Con un divano in pelle e le città tappezzate delle sue pubblicità, prometteva quelle gambe all'aria per tutti. Comodi, perché ci siamo noi. La comodità costava poco, in fondo. Un po' più dell'Ikea, ma molto meno di quello che si trovava altrove. Per questo fu criticato e spesso anche osteggiato. Per questo cominciarono i dubbi sulla tenuta dei conti e del modello di business. I numeri, però, giravano. Quando faceva stare comodo il mondo vendeva la sua merce in 123 mercati dei 5 continenti, fatturava 780 milioni di euro, aveva 5.700 tra dipendenti e collaboratori. Solo in Italia aveva 127 negozi «Divani & Divani». Più 75 all'estero. Vent'anni fa, nel 1993, mister Pasquale decise che valeva la pena provare a giocare pesante. La quotazione in Borsa. Milano? No, Wall Street. Perché aveva capito che l'Italia era troppo piccola, che i numeri, che i volumi, che i soldi si potevano e dovevano fare fuori. Gusto italiano, prezzi tutto sommato bassi e mercato internazionale. Doveva funzionare. Poteva funzionare. Ha funzionato. Si vendevano case? Natuzzi te le poteva arredare. Una poltrona per due. Poi per tre, per quattro, per tutti. Bel business, pensarono in molti. Ci si buttarono. Poi il mondo è cambiato: la crisi immobiliare, poi quella dell'euro, poi le tasse, poi il costo del lavoro, poi il crollo dei consumi.
Gli altri hanno avuto la bolla del web, il mezzogiorno italiano ha, tra le altre, quella dell'«imbottito». L'ex silicon valley del Sud era un'area industriale fra Puglia e Basilicata: dai primi anni del 2000 al 2012 ha visto calare le aziende da 520 a 100 e gli addetti da 14mila a seimila (3.175 dei quali dipendenti di Natuzzi e 1.340 nell'indotto). Natuzzi, con i suoi sogni, con le sue camicie alla coreana, con l'idea di portare il Sud a concorrere col Nord e poi con gli altri, è finito in un incubo. Tagliare per sopravvivere.
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