Il primo fronte di guerra aperto da Roberto Martinelli è stato contro le fiction di Rai e Mediaset, Liberi di giocare, Un amore e una vendetta, e soprattutto Baciati dall'amore, «in cui un poliziotto penitenziario, rivolgendosi a un boss della malavita, manifestava sudditanza e disponibilità». Fino a ottenere, per Gente di mare, le scuse ufficiali di Carlo Degli Esposti, presidente della Palomar, che aveva prodotto lo sceneggiato per la Tv di Stato. Di lì a prendersela col dizionario Zingarelli il passo è stato breve: «Alla voce secondino riporta guardia carceraria. Definizioni entrambe sbagliate, così come agente di custodia, perché non tengono conto che il corpo degli agenti di custodia fu sciolto nel 1990. Abbiamo diritto a essere chiamati poliziotti penitenziari, oppure agenti penitenziari. Anche baschi azzurri, dal colore nei nostri copricapi, può andar bene».
Se è così inflessibile sull'uso dei sinonimi, figurarsi la potenza di fuoco che Martinelli, segretario del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), è capace di dispiegare quando gli toccano i suoi colleghi: «Noi siamo costretti a tradurre i detenuti da una parte all'altra della penisola su Fiat Ducato che hanno già percorso mezzo milione di chilometri, privi di aria condizionata e con i sedili sfondati. Però al ministero della Giustizia gli scortati viaggiano su Maserati, Jaguar e Bmw, anzi viaggiavano, perché dopo la mia denuncia contro questa vergogna qualcosa è cambiato. L'Amministrazione penitenziaria ha anche comprato Land Rover da 100.000 euro per i collaboratori di giustizia, usate invece dai dirigenti».
Il Sappe è il più importante dei sette sindacati - inclusi quelli di Cgil, Cisl e Uil - che tutelano i poliziotti penitenziari. Rappresenta circa un terzo dei 39.000 agenti in servizio: 12.000 iscritti. Martinelli, al suo terzo mandato da segretario, è in aspettativa fino al 2016. Se non dovesse essere rieletto, tornerà a fare il sovrintendente di polizia penitenziaria. Per otto anni ha lavorato nel carcere di Marassi, a Genova, la città dov'è nato nel 1968: «Ho potuto scegliere questa sede perché mi ero classificato primo al corso». Ragioniere, studi universitari in scienze politiche interrotti, sposato con una segretaria di banca, un figlio di 3 anni, s'è arruolato nel 1992, seguendo le orme del fratello maggiore Tommaso, oggi ispettore superiore dopo quasi tre lustri passati a sorvegliare i detenuti dello stesso penitenziario. Sulla vocazione di entrambi deve aver influito il fatto che la madre, sposata con un ferroviere, ha lavorato per 40 anni nell'ufficio del giudice di sorveglianza al tribunale di Genova.
Che si tratti di una particolare vocazione, è fuori discussione. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, anziché diventare un investigatore impegnato nello scoprire i reati e nell'assicurare alla giustizia i malfattori, abbia preferito dedicarsi alla custodia dei medesimi dietro le sbarre, missione che talune menti deviate vorrebbero far coincidere col sadismo e che invece richiede un supplemento di umanità: «Siamo poliziotti due volte, perché dobbiamo far sì che il recluso non possa nuocere ancora alla società ma anche che diventi migliore. Non è un impegno facile e non è da tutti».
Dario Mora, meglio noto come Lele, dopo i 408 giorni passati in isolamento nel carcere di Opera, vi ha persino dedicato un libro, I miei angeli custodi.
«Non siamo né angeli né diavoli. Rappresentiamo lo Stato, che è fatto di legalità, di regole e soprattutto di diritti».
A Mora, che tentò di soffocarsi in cella, avete salvato la vita.
«Non solo a Mora. Negli ultimi 20 anni sono stati 16.388 i tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria. A fronte di 1.097 casi di detenuti che sono purtroppo riusciti a realizzare il loro insano proposito».
In che modo, visto che gli sequestrate persino i lacci delle scarpe?
«Inalando il gas della bomboletta da camping che gli viene consentito di tenere in cella per cucinare, per esempio. Oppure con le lenzuola annodate. O con l'accappatoio. Un solo agente deve controllare dagli 80 ai 100 detenuti sotto la doccia, non può farcela a tenerli d'occhio tutti».
Si uccidono solo i reclusi?
«Anche i baschi azzurri. In media una decina di colleghi l'anno. Da gennaio siamo a 8. In nessun carcere esiste uno psicologo del lavoro per il personale. L'impotenza quotidiana scava dentro. Gli agenti salvano i detenuti, ma nessuno salva gli agenti. Abbiamo strappato alla morte persino il boss dei boss, Totò Riina, colto da infarto nel supercarcere di Ascoli Piceno. Nessuno lo scrive, ma dal 1992 a oggi il nostro tempestivo intervento ha impedito che 112.844 atti di autolesionismo compiuti dai detenuti sfociassero in tragedie».
Sono qui per scriverne.
«Basti dire che nei 206 istituti penitenziari nel primo semestre del 2012 si sono registrati 2.322 colluttazioni e 541 ferimenti. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli patologici: 66.685 reclusi per una capienza di 45.849 posti. Il nostro organico è sotto di 5.447 unità. La spending review ha bloccato le assunzioni per tre anni, nonostante vi siano 1.200 agenti già idonei che premono per entrare in ruolo. L'età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgono, aggravato dai turni notturni, non meno di 6 al mese, e festivi. Dobbiamo confrontarci di continuo con realtà estreme: tossicomani, alcolisti, sieropositivi, transessuali, detenuti per reati infamanti. Sono forme di disagio che bruciano la funzione intellettiva degli agenti. Si torna a casa con le batterie scariche».
Mi pareva d'aver letto che col governo Monti i detenuti fossero diminuiti.
«Di appena 1.236 unità e soltanto in sei regioni. Di fatto, per far entrare nelle celle i 20.836 prigionieri eccedenti, le brande vengono sovrapposte fino al soffitto. A Marassi un detenuto è morto cadendo nel sonno dal terzo piano, per così dire».
Non ci sono i fondi per costruire nuove case circondariali. Allora come si risolve il problema del sovraffollamento?
«I magistrati devono accelerare i processi. In questo momento vi sono dietro le sbarre 26.804 detenuti, il 40 per cento del totale, in attesa di giudizio definitivo, la metà dei quali saranno poi assolti. Significa che li stiamo privando della libertà senza motivo, e questo già è grave, solo per ingombrare le carceri. Un detenuto su 3 è tossicodipendente, ripete sempre gli stessi reati per procurarsi la droga. Se scontasse la pena in una comunità di recupero, dove lo curano, il problema sarebbe risolto alla radice. Poi vi sono 23.789 stranieri che dovrebbero espiare nei loro Paesi d'origine. Infine il carcere non può essere un hotel con le porte girevoli».
Che intende dire?
«Si assiste quotidianamente a un'assurda girandola: arresto, traduzione in cella, registrazione, foto segnaletica, udienza di convalida, scarcerazione. Parliamo di 20.000 persone che intasano il sistema per tre giorni entrando in carcere e subito uscendone, con tutto il sovraccarico di lavoro che ciò comporta».
I braccialetti elettronici per il controllo a distanza potrebbero rappresentare una soluzione?
«Sì. Ma gli ex ministri dell'Interno, Enzo Bianco, e della Giustizia, Piero Fassino, che fecero gli accordi con la Telecom, dovrebbero spiegarci perché si sono spesi ben 110 milioni di euro per tenerli chiusi nei caveau del Viminale».
L'amnistia è una via d'uscita?
«No. Se non è collegata a una riforma strutturale, serve solo a sgravarsi la coscienza. Molto meglio istituire un'area penale esterna al carcere, dove i condannati fino a 2 anni possano dormire a casa propria ma di giorno siano impiegati in lavori socialmente utili».
Il lavoro che redime.
«Non puoi tenerli chiusi in una cella 20 ore al giorno. Escono più cattivi di quando sono entrati. È una presa in giro dell'articolo 27 della Costituzione, che prescrive la rieducazione del condannato. Chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, contro il 19% di chi fruisce di misure alternative e addirittura dell'1% di chi è inserito nel circuito produttivo. In Germania i detenuti lavorano tutti. Ho appena visitato alcuni penitenziari a Berlino e nel Brandeburgo e ho visto i prigionieri impegnati a fabbricare dai componenti elettrici per auto agli oggetti natalizi. Guadagnano 80 centesimi oppure 1 euro l'ora, cioè niente, altro che la paga sindacale che va corrisposta in Italia ai pochi fortunati ammessi a frequentare i laboratori interni. Del resto questo è il Paese in cui le Brigate rosse ammazzavano solo perché a Massa Carrara i detenuti producevano i plaid per la Lanerossi e a Genova gli interruttori per la Ticino».
Lei visita molte prigioni?
«In media 5-6 al mese».
La peggiore?
«Per sovraffollamento, topi e sporcizia, direi Poggioreale a Napoli. Ma certe sezioni di Regina Coeli a Roma non sono messe meglio. Capita persino che gli agenti penitenziari arrivino in mensa e non vi sia più cibo. I detenuti mangiano, loro no. Per non parlare dello scandalo delle madri tenute in cella con i figli di età inferiore ai 3 anni: ce ne sono 57 in queste condizioni. È giusto che 60 minori muovano i primi passi in un contesto così terribile?».
Che cosa ricorda dei suoi anni passati a Marassi?
«Un mondo a parte. Chi ha la fortuna di non averlo mai visto da dentro, non può capire. Bisognerebbe portarci in visita le scolaresche, soprattutto quando gli studenti sono nella fase del belinismo, come diciamo a Genova. Già solo dalla puzza capirebbero tante cose».
Qual è la richiesta più urgente che viene dagli agenti iscritti al Sappe?
«L'umanizzazione delle condizioni di lavoro, più che l'aumento degli stipendi. Alla fine dei turni hanno i piedi che fumano e la testa che scoppia».
Quanto guadagnano al mese?
«Intorno ai 1.300 euro netti. Gli ispettori possono arrivare a 2.200, ma solo aggiungendo straordinari, notturni e servizi esterni».
Il dissociato Arrigo Cavallina, il fondatore dei Proletari armati per il comunismo che reclutò Cesare Battisti, mi ha raccontato: «In tutte le prigioni c'erano squadrette di pestaggio, gruppi di agenti che venivano a picchiarti senza motivo. A Rebibbia ci svegliarono di notte, avevano i manganelli e i caschi con la visiera, sembravano robot. Ebbi 20 punti di sutura sulla testa. La mattina dopo il medico di turno mi cucì senza chiedermi nulla, come se fosse stata la cosa più normale di questo mondo».
«Ciascun detenuto può conferire col magistrato di sorveglianza e riferirgli eventuali soprusi subiti. Siamo i primi ad allontanare le mele marce. Ma troppo spesso i racconti delle presunte vittime dei pestaggi si rivelano infondati».
È un fatto che il primo a finire assassinato da Battisti fu il maresciallo Antonio Santoro, comandante del penitenziario di Udine. Non credo che fosse stato scelto per caso un bersaglio con moglie e tre figli.
«Bisognerebbe interpellare Battisti, se non fosse latitante. I terroristi ci hanno sempre identificato come la mano nera dello Stato. Santoro non fu l'unico caduto in servizio. Prima di lui le Br uccisero Lorenzo Cotugno, 31 anni, agente alle Nuove di Torino, e poi, sempre a Torino, Prima linea ammazzò Giuseppe Lorusso, 30 anni. Stessa sorte per la poliziotta penitenziaria Germana Stefanini, che lavorava a Rebibbia, sequestrata e processata dai Nuclei per il potere proletario».
Favorevole o contrario all'ergastolo?
«Per certi reati odiosi, compiuti con crudeltà o su bambini, a mio avviso va mantenuto».
Il professor Umberto Veronesi sostiene che dal punto di vista scientifico non ha senso: anche l'omicida più efferato, trascorsi 20 anni, è completamente diverso dall'uomo che commise il crimine, per un semplice fatto di ricambio cellulare.
«Veronesi provi a parlarne con i familiari delle vittime. Troppo facile fare i generosi sulla pelle degli altri».
(628. Continua)
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