Stragi del '93, così fermarono l'anti-Ingroia

La solitudine del magistrato. Raccontata in una lettera drammatica scritta poche ore prima di morire. Gabriele Chelazzi, magistrato dell'antimafia fiorentina distaccato sul fronte delle stragi, si sente abbandonato dai colleghi e così il 16 aprile 2003 racconta tutta la sua amarezza al capo dell'ufficio Ubaldo Nannucci. Quella notte viene stroncato da un infarto. Ora quel documento, ritrovato dall'onorevole Amedeo Laboccetta, diventa pubblico. Come un testamento che costringe a riflettere; dietro le quinte di indagini sotto i riflettori dei media si consumano incomprensioni, scontri, l'emarginazione di professionalità impegnate sulla prima linea della lotta alla criminalità.
«Come le ho segnalato - spiega Chelazzi - è con estremo disagio che da circa due anni mi trovo a lavorare da solo su una vicenda come quella in questione»: una vicenda, ricorda il magistrato, che «ha a che fare con sette stragi».
Le bombe, terrificanti, degli Uffizi, di Milano, e di Roma, le bombe del '93, le bombe piazzate dai mafiosi per costringere lo Stato al dialogo, a una sorta di patto scellerato. Dieci morti, decine di feriti, un danno incalcolabile al nostro patrimonio artistico. Per quelle carneficine viene processato e condannato all'ergastolo un gruppo di mafiosi, a cominciare da Totò Riina. Il capo di Cosa nostra ha fatto avere alle istituzioni il famoso papello con tutta una serie di richieste. Chelazzi deve perlustrare proprio quel terreno scivolosissimo, la cosiddetta zona grigia, a cavallo delle istituzioni. Dà la caccia ai mandanti, sempre evocati e mai messi a fuoco. Una ricerca in qualche modo decisiva per la tenuta della democrazia. Ma il pm scopre di «lavorare da solo (con tutti i rischi del caso, da quello di sbagliare a quello di esporre la pelle a eventualità non propriamente gratificanti)».
Insomma, Chelazzi si ritrova senza i supporti necessari, anzi senza nemmeno l'aiuto minimo da parte dei colleghi. E' deluso e disilluso. E descrive il suo stato d'animo a Nannucci: «A proposito dello scetticismo non nego che ripetutamente mi è parso di cogliervi addirittura un retropensiero secondo il quale il mio impegno in questo lavoro al contempo dipenderebbe da un mio capriccioso accanimento e da un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi». Non è così, perché Chelazzi ha imboccato la pista della trattativa fra Stato e mafia. Ma ci sono indagini che non catturano l'opinione pubblica, forse perché si muovono su sentieri non ortodossi: Chelazzi guarda a destra - a Dell'Utri, a Berlusconi, a tutta la presunta misteriologia legata alla nascita della Fininvest - ma nello stesso tempo apre altri fronti, a 360 gradi, senza indossare il paraocchi del conformismo giudiziario e intuisce manovre insospettabili che poi porteranno verso i «padri della patri»: i Conso, i Mancino e i tecnici del governo Ciampi. In qualche modo, e senza volerne fare a posteriori una bandiera, Chelazzi è alternativo a Ingroia.
Il 16 aprile la lettera è pronta. Chelazzi non fa nemmeno in tempo a spedirla perché muore la notte successiva a 59 anni. Il testo viene ritrovato sul suo tavolo e consegnato a Nannucci nei giorni seguenti. È un documento storico che fotografa quel che può accadere in un ufficio importante. E come un'indagine delicatissima possa finire sul binario morto dell'indifferenza.

Ora quelle carte riemergono grazie all'impegno di Laboccetta che le ha cercate prima alla procura di Firenze poi alla Commissione antimafia. «Lo hanno abbandonato al suo destino - racconta Laboccetta - e proprio mentre squarciava il velo di una trattativa inconfessabile che solo oggi comprendiamo». Ora, a nove anni dal suo sacrificio.

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