diVilla Ada è un immenso parco - 180 ettari - oggi ormai all'interno di Roma. Nei suoi viali passeggiano coppie romantiche e famiglie poco vogliose di gite fuori porta: il sabato e la domenica, nella bella stagione, genitori fantasiosi o in vena di risparmio organizzano feste di compleanno per bambini, all'aperto. Un bel posto insomma, che non verrà molto turbato dall'intitolazione di un largo e di un viale (senza case) al re Umberto II e a sua moglie, la regina Maria José.
Del resto, la Villa era loro. La comprò, con tutto il parco, Vittoriale Emanuele II, padre della patria, nel 1872. Roma era stata conquistata da poco e il re si trasferì nella nuova capitale. Non gli piaceva stare al Quirinale, era abituato ai castelli e alle grandi tenute di caccia piemontesi, e scelte quella villa settecentesca dei principi Pallavicini. A suo figlio Umberto I invece piaceva di più il Quirinale, e vendette la Villa a un signore che la intitolò alla moglie Ada. Vittorio Emanuele III la ricomprò nel 1904.
Forse a qualcuno verrà in mente di accendere discussioni affannate sull'opportunità di onorare i due Savoia, ma basta riflettere un minuto sull'antichità di questo luogo - e di tutte le cose che vi sono accadute nei millenni - per sgomentarsi alla vacuità di una simile polemica. I resti archeologici dimostrano che qui, vicino alla confluenza fra Tevere e Aniene, c'erano insediamenti umani già nell'VIII secolo avanti Cristo, e che proprio da qui provenivano molto delle donne vittime del celebre «ratto delle sabine».
Il tempo è il migliore medico, e oggi neanche i sabini si sdegnerebbero se si dedicasse una via di Villa Ada al ratto.
Da qui passava e passa ancora la via Salaria, la prima via consolare romana, che serviva a andare verso l'Adriatico per raccogliere il preziosissimo sale. La stessa strada che fecero i Savoia per fuggire indecorosamente e indegnamente da Roma l'8 settembre 1943. È proprio per l'8 settembre, più che per la lunga alleanza con il fascismo, che i Savoia non sono ancora stati perdonati del tutto dagli italiani. Umberto, quel giorno, non era ancora il re, e seguì gli ordini del re suo padre, Vittorio Emanuele III. Se avesse disobbedito rimanendo a Roma, forse lui sarebbe morto ucciso dai nazisti, ma l'Italia sarebbe ancora una monarchia. (Ahimè, aggiungo, perché sono repubblicano e - ancora di più - perché al trono sarebbe salito quel poco lodevole uomo, allora bambino, dal nome storico di Vittorio Emanuele: in questo caso IV.)
Oddio, anche il nonno, Vittorio Emanuele III, non fece cose molto onorevoli: lì firmo le leggi fasciste, anche le peggiori, e lì il 25 luglio 1943 fece arrestare - con stile affatto regale, in casa propria - il capo del governo Benito Mussolini, andato a conferire. Umberto II non mancò mai di eleganza, invece. Fu re per poco più di un mese, subito prima e subito dopo il referendum del 2 giugno 1946 con il quale gli italiani scelsero la repubblica. Poi, come ha sottolineato il sindaco di Roma Alemanno inaugurando la nuova toponomastica, scelse di allontanarsi dall'Italia per non aprire uno scontro che avrebbe potuto anche degenerare in guerra civile. Gliene dobbiamo essere grati. Siamo pure comprensivi verso sua moglie Maria José, belga, se non altro per i dispiaceri che gli hanno dato le figlie e il figlio Vittorio Emanuele.
Il quale, presenziando alla cerimonia di inaugurazione delle vie dedicate ai genitori, ha detto che, se si vuole mettere definitivamente una pietra sul passato, suo padre e suo nonno devono essere seppelliti al Pantheon, come Vittorio Emanuele II. Può essere. Purché sia chiaro sin da ora che avranno questo diritto soltanto i Savoia che hanno effettivamente regnato, mai i loro successori.
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