Una verità in fondo al pasticcio

Sei anni e mezzo di processi avvitati sugli errori dell'inchiesta. E ancora una camera di consiglio che si trasforma in un bivacco fino oltre l'ora di cena. È il solito pasticcio all'italiana, sia detto senza ironia verso i giudici costretti a mettere toppe e pezze su un vestito comunque sformato. Amanda e Raffaele sono quasi colpevoli, ma fino a ieri quasi innocenti e chissà che altro succederà nel pendolo impazzito delle sentenze. Ad incastrare lui c'è, per i giudici dell'appello bis, il famoso gancetto del reggiseno, che però fu repertato 46 giorni dopo il primo sopralluogo e infatti non aveva convinto la corte di Perugia. E Amanda? Qui c'è in ballo il coltello da cucina con tracce della vittima sulla lama e dell'americana sul manico. Tutto chiaro? Neanche per idea, perché pure quelle prove sarebbero contaminate. Intanto, la solita giustizia a doppio taglio ha condannato in via definitiva Rudy Guede per «concorso in omicidio».

Con Amanda e Raffaele? Forse sì, forse no. Ora più sì che no, ma non è detto che i colpi di scena siano terminati. Aspettiamo le motivazioni e incrociamo le dita. Sembra di stare in un girotondo che si presta a tutte le soluzioni. Come tanti altri gialli italiani che hanno inquietato l'opinione pubblica ma, purtroppo, senza un finale consolatorio o con una conclusione ancora oltre l'orizzonte: basta citare la tragedia di Garlasco, con Alberto Stasi imputato unico ad un passo dall'innocenza e ora di nuovo a rischio condanna, o il dramma infinito di Yara, il caso di nera più nera della nostra storia recente, una successione interminabile di errori, incertezze e balbettii dell'intero apparato investigativo. Ma purtroppo la Spoon River delle croci che aspettano un verdetto è lunga e molte lapidi sono ormai sbiadite e fuori dai radar della nostra memoria: nessuno si ricorda più, ad esempio, di Serena Mollicone e dell'incredibile guazzabuglio giudiziario seguito a quell'atroce omicidio.

Con tanto di mostro sbagliato, Carmine Belli, il carrozziere di Arce, sventolato davanti a tv e giornali nell'ormai lontano febbraio 2003, salvo poi riabilitarlo nell'imbarazzo generale; esattamente come è accaduto nella vicenda di Meredith Kercher, con l'arresto dell'incolpevole Patrick Lumumba, peraltro sulla base delle dichiarazioni di Amanda. Circostanza che non può non suscitare foschi retropensieri. E che rende più sensata la condanna rispetto alla precedente assoluzione, ma non cancella i punti ti di domanda.

Così, fra sbandate e passi falsi, il cittadino medio si convince che la giustizia sia una sorta di lotteria, o peggio, una sorta di quiz. E dove alla fine dilaga la dietrologia che tutto abbraccia e nulla spiega. Burattinai, trame oscure, 007 deviati per definizione, collegamenti cervellotici con altri misteri italiani fino a scoprire, vedi l'Olgiata, che l'assassino della contessa Alberica Filo della Torre era il maggiordomo. E che le prove, addirittura le intercettazioni, c'erano ma rigorosamente chiuse in un cassetto. Contrappasso beffardo per un Paese che ogni giorno svela in tempo quasi reale squarci di conversazioni.
Le sentenze, quando arrivano, sono comunque in ritardo.

E si resta basiti nel leggere quel che Stephanie Kercher, sorella di Meredith, ha dichiarato al Corriere della sera: «In America e in Gran Bretagna molti pensano che la famiglia Kercher vuole portare avanti questo giudizio infinito verso i due imputati».
Come se si trattasse di una vendetta personale e non di una vergogna corale. Ora i Kercher hanno almeno un punto fermo. In attesa del nuovo round, l'ultimo?, in Cassazione.

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