Premessa: «Sono un polemista, non un dietrologo».
Massimo Fini, penna acuta e spiazzante del giornalismo italiano, allarga le braccia: «Cominciamo col dire che non dobbiamo sporcare il gesto di papa Ratzinger con il solito gossip all'italiana».
Il gioco al chissà che c'è dietro?
«Appunto. Ai tempi delle Brigate rosse si diceva: chissà chi c'è dietro le Brigate rosse. Naturalmente c'erano solo e soltanto loro, le Brigate rosse, ma questo per certuni era un dettaglio irrilevante. Lo stesso accadde con Mani pulite e temo che oggi siamo al punto di prima».
Si parla di rapporti segreti sconvolgenti, si evocano i corvi svolazzanti e si vocifera di malattie nascoste.
«Lasciamo perdere e concentriamoci sul gesto».
Lei è sorpreso?
«Devo dire che trovo le dimissioni un atto di responsabilità».
Responsabilità?
«Sì, vuol dire che papa Benedetto è persona di grande realismo, se vogliamo un po' tedesco. Ha fatto i conti con le sue forze, ha visto che le energie scemavano irrimediabilmente, cosa possibile a quell'età, quando il vigore può scendere di botto, come un ascensore».
È stata una decisione programmata?
«Non lo so, sicuramente è stata una decisione sofferta da parte di una persona molto lucida, consapevole dei propri mezzi e dei propri limiti. Quindi leggo quel che è successo come un atto di coraggio e di umiltà».
Si può definire coraggioso chi lascia il timone del comando?
«Sì, se uno ha calibrato risorse e capacità disponibili. Ci vuole coraggio, molto coraggio, ad abbandonare il trono del potere; ci vuole coraggio, molto coraggio, ad imboccare una strada che nessuno o quasi aveva mai percorso; ci vuole coraggio, molto coraggio ad esporsi a critiche, chiacchiere, gossip planetari. Ancora di più se si è, come papa Ratzinger, una persona riservata, schiva».
Scusi, non ci vuole più coraggio a rimanere alla guida della Chiesa, come ha fatto Wojtyla negli ultimi anni?
«Vede, tra Wojtyla e Ratzinger per conto mio c'è un abisso».
Addirittura?
«Wojtyla, e parlo da agnostico o, se preferisce una formula alla Nietzsche, da onesto pagano, era perfettamente adeguato ai tempi. Quel che contava era l'apparire e non l'essere, lo show, la sua faccia che rimbalzava su tutti i media del mondo».
Naturalmente, molti - laici e cattolici - la vedono diversamente da lei. Giovanni Paolo ha usato i media per riproporre la centralità di Cristo.
«Non sono per niente d'accordo. Quello che lei sostiene è vero all'inizio, poi per inseguire tv e giornali, Wojtyla ha annacquato sempre di più il messaggio cristiano. Ma in ogni caso voglio dire che papa Benedetto è agli antipodi del suo predecessore».
Forse vuol dire che sono due figure complementari?
«No, no: antitetiche. Ratzinger ha portato la sofferenza finchè ha potuto, poi ha deciso di farsi da parte. L'altro l'ha esibita la sofferenza e il dolore non si esibisce, come la carità».
Non è stato il Wojtyla sofferente a insegnarci che il cristiano non ha paura di niente?
«No, per me anche quello è stato uno show, uno spettacolo, sia pure drammatico».
Papa Benedetto?
«Ci lancia un messaggio che è insieme molto contemporaneo, direi all'avanguardia, e nello stesso tempo politicamente scorretto».
Che cosa vuol dire?
«Intendo dire che oggi la vita si allunga, la quarta età diventa una realtà, ma non è scontato che una persona arrivi a ottantacinque, novant'anni con disinvoltura. E invece c'è tutto un pensiero dominante che nega la vecchiaia, nega il decadimento, nega la senilità. Ratzinger combatte la retorica della modernità, con i corpi sempre perfettamente efficienti».
Insomma, le dimissioni non sono una fuga dalla realtà?
«Al contrario. Perché mascherare la propria debolezza, percepita come inadeguatezza ad un impegno così pesante? Peccato solo, e mi permetta questa battuta, che fra i due grandi vecchi si sia dimesso quello sbagliato».
Quello
giusto?«L'inquilino del Quirinale».
Lascerà fra poche settimane pure lui.
«I nostri politici non mollano mai. Papa Benedetto, che certo non ama il clamore, ha avuto il coraggio di compiere un gesto così clamoroso».
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