Lo yacht di Bossi jr era una bufala. E l'assalto al Carroccio cola a picco

Il "caso" era montato sui giornali dopo che il nome del figlio del Senatùr era spuntato dall'ordine di arresto di Belsito

Lo yacht di Bossi jr era una bufala. E l'assalto al Carroccio cola a picco

E adesso, cosa farà il marmittone tunisino piazzato sul molo del porto di El Kantaoui a montare la guardia alla barca - un grezzo motoscafone, a dirla tutta - divenuto il simbolodella voracità della politica italiana, del nuovo leghista evoluto in vecchio, incontenibile trasporto per i confort della vita? Lo «Stella», entrobordo da venti e passa metri che per la Guardia di finanza apparteneva a Riccardo Bossi, figlio primogenito del fondatore della Lega Lombarda, esce repentinamente dalle cronache della nuova Tangentopoli in salsa Carroccio. La barca non è di Bossi junior: questa è l'amara verità che consegna alle cronache il verbale di interrogatorio del vero proprietario della barca. Il figlio del Senatùr, confermando in questo l'impressione di non essere particolarmente astuto, se ne vantava con le ragazze come di cosa sua. Invece era di un amico che qualche volta, e con parsimonia, gli permetteva di salirci a bordo. Tutto qua. Non c'entrano i fondi neri della Lega, i diamanti di Belsito, i finanziamenti pubblici sperperati nel mantenimento della «family», come nelle carte dell'inchiesta veniva definito il cerchio magico dei parenti di Umberto Bossi. E quel che ne resta alla fine è, a ben vedere, un apologo su come i massmedia riescano ad entusiasmarsi per i luoghi comuni, l'ovvio, il clichè che - a volte meritatamente - incombono sui protagonisti della seconda Repubblica.

Il verbale di interrogatorio di Stefano Alessandri, un signore romano di 55 anni, reso alla Guardia di finanza e approdato ieri sulle pagine del Fatto Quotidiano - organo di stampa non sospettabile di indulgenza verso le disinvolture della casta - lascia pochi dubbi. Di prestanome che cercano di salvare il proprio politico di riferimento sono piene le cronache. Ma in questo caso si può escludere che si tratti di un alibi graziosamente offerto a Riccardo Bossi per salvare il salvabile. Alessandri ha fornito alle «fiamme gialle» dati incontrovertibili per dimostrare che lo «Stella» è suo. Il fatto che sia stato comprato qualche anno prima che Alessandri e Bossi facessero la loro conoscenza, per esempio. Ma anche - secondo quanto si dice - un dato ancora più solido, perché proviene da quella fucina di rivelazioni che sono spesso i dissidi coniugali: quando il matrimonio di Alessandri è andato in crisi, tra i beni che la sua signora ha preteso di condividere nella separazione dei beni c'era anche il barcone. Il figlio di Bossi non c'entra niente.

La storia dello yacht era finita su tutte le prime pagine il giorno in cui erano scattate le manette ai polsi di Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord, l'uomo che già da qualche mese è sotto inchiesta per la allegra gestione della cassa padana. L'inchiesta principale, che ha decapitato il movimento e ha catapultato Roberto Maroni alla sua guida, è ancora in corso. Tra i motivi che rallentano la chiusura dell'indagine c'è anche la difficoltà di inquadrare esattamente nel codice penale le imprese di Belsito e, di rimbalzo, di Umberto Bossi. Peculato, appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato? L'indagine milanese si è barcamenata a lungo tra sottigliezza giuridiche. Che i soldi erogati dallo Stato alla Lega Nord fossero impiegati per fini eterodossi è un dato di fatto. Ma quale reato in grado di reggere in aula si dovesse imputare a Bossi e Belsito è tema che ha fatto discutere a lungo i pm milanesi.

Poi, all'improvviso, il 24 aprile Belsito, fino a quel momento indagato a piede libero, viene arrestato. Insieme a lui finiscono in cella altri personaggi piuttosto grigi, come quel Romolo Giarardelli, detto l'Ammiraglio, che incarnerebbe il trait d'union tra gli investimenti leghisti e quelli di alcuni clan della 'ndrangheta. La lettura dell'ordine di cattura per Belsito non dà grandi soddisfazioni ai cronisti: false fatture, reati contabili, nulla in grado di appassionare i lettori. Se non fosse per le poche righe a pagina 32 in cui, per dimostrare la perdurante pericolosità di Belsito, nel provvedimento si parla della barca: «Uno yacht del valore di 2,5 milioni di euro che Riccardo Bossi, figlio di Umberto Bossi, avrebbe a suo tempo acquistato avvalendosi di un prestanome grazie ad un'ulteriore appropriazione indebita di Belsito». Bum. Il giorno dopo, la storia dello yacht di Bossi è su tutti i giornali, simbolo galleggiante di quella che è stata efficacemente ribattezzata «Lega Ladrona».

I pubblici ministeri, a dire il vero, invitano i cronisti alla cautela: dello yacht, spiegano, si parla in una intercettazione realizzata in un'altra indagine, «non siamo sicuri neanche che esista davvero». Ma lo yacht esiste, eccome. E infatti alla fine di aprile viene individuato in Tunisia dall'inviato del Corriere della sera. Il barcone è ormeggiato a El Kantaoui, settanta chilometri a sud di Hammamet, la Sant'Elena di Bettino Craxi. Le immagini dello «Stella» fanno il giro d'Italia. Parte la rogatoria internazionale, il governo tunisino mette i sigilli allo yacht e piazza un agente di guardia al molo.

Riccardo Bossi, che fino a quel momento ha taciuto, rilascia un'intervista a Chi negando di essere il padrone del vascello, ma non viene creduto.

Però adesso il verbale di interrogatorio del vero padrone della barca costringe a prendere atto della realtà: lo yacht non è del figlio di Bossi. Che è un bauscia, come si dice a Milano. Ma per scoprire questo non serviva una rogatoria.

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