Lo zampino di Napolitano anche nella congiura di Fini

Laboccetta: "Da presidente della Camera si sentiva con Napolitano ogni giorno". Poi disse: "Non avrò pace finché non vedrò la testa del Cav cadere ai miei piedi"

Lo zampino di Napolitano anche nella congiura di Fini

Roma - Il complotto anti-Berlusconi? È partito ben prima del luglio 2011 e ha un protagonista inatteso ma neanche troppo: Gianfranco Fini, allora presidente della Camera e numero due del Pdl. L'ex leader di An già tesseva le fila del suo tradimento nei confronti del leader del centrodestra giocando di sponda con il Quirinale per fare le scarpe al suo «capo» e prendere il suo posto a Palazzo Chigi. Ricostruzioni che si devono non a un giornalista un po' «fanta» e un po' politico, ma a un politico che di quelle vicende fu testimone privilegiato. Quell'Amedeo Laboccetta allora deputato del Pdl e vero braccio destro di Fini, che racconta in una lunga intervista a Carlantonio Solimene del Tempo gli antefatti del complotto narrato nel suo libro da Alan Friedman. Certo, si può anche sospettare un po' di risentimento da parte di Laboccetta nei confronti del suo leader e amico (intendiamo Fini) a cui non ha mai perdonato l'ultima stagione politica, quella delle coltellate alla schiena. «Prima che politici bisogna essere uomini. E Fini non lo è mai stato», la spietata diagnosi di Laboccetta. Una testimonianza di disprezzo certamente ingigantita dalla delusione. Però i racconti dell'esperto politico campano sono dettagliati e non solo una vendetta servita gelata.
Il racconto di Laboccetta parte dal 2008, quando, appena salito Berlusconi a Palazzo Chigi dopo il trionfo elettorale, Fini inizia a coltivare rapporti privilegiati (e politicamente adulterini) con Giorgio Napolitano. «Si sentono al telefono praticamente ogni giorno», il ricordo di Laboccetta, testimone diretto di molti di quei colloqui perché in quel momento è uno dei pochi del suo entourage di cui Fini si fida ciecamente. Arriva il 2009 e Fini inizia a dare segni di insofferenza nei confronti del Cavaliere e quest'ultimo cerca di rabbonirlo proponendogli la segreteria del partito. Ma Fini si tiene stretto Montecitorio «perché da lì poteva “tenere per le palle Berlusconi”». Poi Fini alza la posta e chiede addirittura la testa di La Russa, Gasparri e Matteoli. Suoi amici. «Ma l'amicizia in politica non ha valore», replica spietato Fini. Quanto al Cav la ferocia del fondatore di An è addirittura agghiacciante: «Una volta mi disse: “Non avrò pace fino a quando non vedrò ruzzolare la testa di Berlusconi ai miei piedi”».
Si arriva allo showdown del 2010. Fini è convinto che il Cavaliere sia «finito» e si prepara a papparsene i resti. Alimenta la fronda interna e prepara quello che dovrebbe essere il suo grande giorno: il 14 dicembre 2010 quando, in un clima incandescente dentro e fuori Montecitorio, il governo Berlusconi si gioca la sopravvivenza con un voto di fiducia. Fini è convinto di far cadere l'esecutivo, ma non ci riesce e da quel momento inizia la sua parabola negativa come leader di Fli, il partito-yogurt, nel senso della durata. Ma ciò che importa è la frase che prima dell'imboscata fallita Fini rivolge a un Laboccetta che cerca di farlo ragionare: «Tu non pensare che io giochi d'azzardo. Credi che mi muoverei così se non avessi un accordo forte con Napolitano?». Che a sua volta rispondeva a «una regia extranazionale». Quello che a Re Giorgio non riesce quel tumultuoso giorno di dicembre con il burattino Fini, gli riuscirà quasi un anno dopo in un clima più fertile perché economicamente degradato e con uno strumento politicamente più credibile: Mario Monti. Ecco, quelle del 2010 sono prove tecniche di quasi golpe.

Che Laboccetta rivela solo ora perché «all'epoca ho fatto di tutto per favorire una ricomposizione» e in seguito «ho ritenuto che era meglio lasciare queste cose alle miserie umane». Oggi però che le rivelazioni di Friedman illuminano gli ultimi punti oscuri di una storia a lungo solo immaginata, è giusto raccontare anche il prequel di una saga già troppo lunga.

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