Sono rimasti in 300, né giovani né forti. Circa un centinaio di famiglie. Tutte le loro speranze sono riposte in una cinquantina di bambini e nell’amata patria, l’Italia, che non hanno mai visto. Abitano a Kerch, in Crimea, ieri Urss, oggi Ucraina. Alcuni parlano ancora la nostra lingua. Portano i cognomi degli avi, emigrati qui tra il 1830 e il 1870 soprattutto dalla Puglia, ma anche dalla Campania e dalla Liguria: Barone, Bassi, Binetto, Capuleti, Carbone, Cassanelli, De Lerno, De Martino, Dell’Olio, Di Pinto, Fabiano, Giacchetti, La Rocca, Le Conte, Maffione, Mezzino, Nenno, Petringa, Porcelli, Scaringi, Scolarino, Scuccemarro, Simone, Zingarelli.
La tragedia dei loro padri e dei loro nonni si consumò esattamente come oggi, fra il 29 e il 30 gennaio 1942, dopo vent’anni di purghe staliniane punteggiate da arresti, torture, fucilazioni. Ingiustamente accusati di simpatizzare per Benito Mussolini, gli italiani furono radunati nel giro di due ore dai militari sovietici per essere deportati ai confini con la Siberia. L’ordine partì sempre da lui, Iosif Visarionovich Dzugasvili, detto Stalin, al quale poco importava che in quella colonia avessero nel frattempo trovato rifugio molti fuoriusciti antifascisti. Poterono portare con sé solo otto chili di bagaglio. Furono rinchiusi nelle stive delle navi e poi, attraversato il Mar d’Azov, ammassati come bestie dentro i vagoni piombati di tre convogli ferroviari. I treni diretti verso le steppe gelate del Kazakistan avanzarono fra la neve fino a marzo. A farlo oggi in auto è un viaggio di 8.000 chilometri, ci vogliono cinque giorni.
Vecchi e bambini furono uccisi dalla fame e dal freddo nei due mesi di calvario sulla strada ferrata. Una madre finse di allattare il figlioletto morto, nella speranza di potergli dare cristiana sepoltura all’arrivo. I sopravvissuti vennero rinchiusi nei lager di Akmolinsk e Karaganda e utilizzati come schiavi nella Trudarmia, l’Armata del lavoro, sotto la ferrea sorveglianza dell’Nkvd, il Commissariato del popolo agli affari interni. Metà di loro - secondo alcune fonti almeno 500, seconde altre circa 1.000 - non tornarono più indietro. Per capire a che prezzo l’altra metà scampò alla morte, è sufficiente ascoltare la testimonianza resa fra le lacrime al sito Sovietmemories.it da una discendente di Sergio De Martino: «Raccontava che si finse sordomuto per sei mesi. Ogni notte lo torturavano perché confessasse un furto. Allora lui chiese a qualcuno di procurargli ago e filo, nascondendoli nel pane, e si cucì la bocca per fare in modo che non lo torturassero più».
I pochi che riuscirono a rivedere Kerch rimpiansero ben presto di non essere morti. Ricorda Maria Scogliarino, alternando l’italiano al russo: «Nel 1953 mio padre si rivolse al tribunale per riavere la proprietà della nostra casa. Il giudice sentenziò che ci spettava un terzo dell’abitazione, ma non ci venne mai restituito. Dopo qualche tempo il regime cominciò ad assegnare appartamenti a tutti, tranne che a noi italiani». Solo nel 1956, nella relazione al XX congresso del Pcus, Nikita Krusciov condannò questo «brutale, mostruoso genocidio di popoli» e spiegò che gli ucraini erano sfuggiti alla medesima sorte solo perché erano troppi «e non vi era luogo dove deportarli». Ma si dovette arrivare al 14 novembre 1989 perché, caduto il Muro di Berlino, il Soviet supremo dichiarasse illegale la deportazione dei nostri connazionali di Kerch.
Sono trascorsi esattamente 25.202 giorni da quel 30 gennaio 1942 in cui cominciò lo sterminio degli italiani di Crimea, L’olocausto silenzioso come hanno intitolato il loro libro Giulia Giacchetti Boico, nipote di deportati che vive a Kerch, e Giulio Vignoli, giurista e storico, per oltre vent’anni docente di diritto internazionale all’Università di Genova, studioso delle minoranze italiane in Europa. Dei superstiti non interessa nulla a nessuno. Peggio: il nostro Paese ne ignora addirittura l’esistenza.
Solo un italiano di frontiera, figlio di un maresciallo sardo dell’esercito e di un’altoatesina di lingua tedesca, poteva prendersi cura di questi fratelli d’oltrefrontiera dimenticati da tutti. Si chiama Walter Pilo, è nato a Bolzano nel 1951, ha una moglie e due figli «ai quali», dice con orgoglio, «sono riuscito a trasmettere il sentimento della patria che ho ricevuto da mio padre». Titolare di due bar, uno a Riva del Garda e l’altro a Torbole, vent’anni fa Pilo s’è messo in testa un’idea folle quanto eccelsa: aiutare gli uomini a non perdere la libertà. Così nel luogo dove abita, Arco, provincia di Trento, ha fondato L’Uomo Libero, una Onlus di cui è tuttora presidente. Tricolore sulla manica della tuta di pile e logo dell’associazione cucito sul petto, Pilo è riuscito ad arruolare 300 soci, che nel momento del bisogno sono capaci di mettersi una mano sul cuore e l’altra sul portafoglio. «L’Unione Sovietica s’era appena dissolta e con essa la cortina di ferro. Mi venne la voglia di recarmi nei Paesi dell’Est per capirne di più e fare qualcosa. Per quelli della mia generazione fino ad allora erano stati solo luoghi di facili conquiste, da visitare con le calze di seta in stock nella valigia». I bisogni degli uomini liberi dal 1991 a oggi si sono via via allargati e Pilo ha promosso anche la costruzione di capanne per il popolo Karen in Birmania, un asilo in Eritrea, le adozioni a distanza a Betlemme, l’apertura di un centro per l’infanzia in India, l’arrivo della corrente elettrica in due enclave serbe del Kosovo, il sostegno economico agli italiani d’Argentina che hanno perso tutto nel default, i progetti di solidarietà in Bolivia, Cile ed Ecuador. Ma, su tutto, brilla l’impegno per i compatrioti che vivono di stenti in Crimea.
Le vittime del comunismo sono quelle che le fanno più pena.
«È così. Nel 1991 mi trovavo a Varsavia, indeciso se prendere il volo Aeroflot verso l’ex Ddr o verso la Lituania. Optai per la seconda destinazione. A Vilnius, ancora presidiata dall’Armata rossa, mi ritrovai nel bel mezzo di un raduno del movimento Sajudis, che aveva proclamato l’indipendenza dall’Urss. Quando seppe che era presente un italiano, il presidente della Repubblica, Vytautas Landsbergis, volle che salissi sul palco. Io, imbarazzatissimo, me la cavai con quattro parole in inglese sulla libertà».
E poi?
«Cominciai a girare: Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Croazia, Bosnia, Serbia. Allo scoppio della guerra nell’ex Jugoslavia, mi dissi che dovevo fare qualcosa. Organizzai l’operazione Scatoletta, coinvolgendo le scuole di Arco e Riva del Garda. Furono raccolte 800 tonnellate di cibi non deperibili, 38 viaggi per portarle in Bosnia-Erzegovina, Slavonia, Dalmazia».
Com’è arrivato a occuparsi degli italiani di Crimea?
«Attraverso Giulia Giacchetti Boico, che abita là. È una fragile casalinga quarantenne con un coraggio da leonessa. Quattro fratelli di sua nonna furono arrestati durante le purghe staliniane, fra il 1933 e il 1937: due vennero fucilati, uno scomparve nei gulag siberiani, il quarto tornò a casa ma fu deportato nel 1942. Giulia presiede l’associazione Cerkio, acronimo di Comunità emigrati regione di Kerch italiani di origine. Cerkio come il cerchio della vita che continua, anche se i marinai sono rimasti senza navi e senza lavoro, gli insegnanti e i musicisti fanno le pulizie o vendono conserve al mercato e i neolaureati s’ingegnano come manovali nell’edilizia. I più ricchi sono i pensionati, che ricevono dalle 800 alle 1.000 grivne al mese: fra i 75 e i 95 euro».
Una storia di emigrazione semisconosciuta.
«Eppure è cominciata con l’impero romano e proseguita con le Repubbliche marinare di Genova e Venezia. A Soldaia, oggi Sudak, 150 chilometri da Kerch, il padre e lo zio di Marco Polo avevano una compagnia di commerci con l’Oriente. A Odessa, sul finire del Settecento, un abitante su dieci era italiano. Furono gli zar a favorire nell’Ottocento l’immigrazione degli italiani, soprattutto da Trani, Bisceglie e Molfetta. Erano per lo più contadini, marinai, maestri d’ascia che si dedicarono alla coltivazione dei terreni incolti, alla pesca e alla cantieristica navale, visto che Kerch si trova sull’omonimo stretto che collega il Mar Nero col Mar d’Azov. Da qui si diffusero anche a Feodosia, l’antica Caffa, Odessa, Simferopoli, Mariupol, Batumi e Novorossijsk. Secondo il Comitato statale ucraino per le nazionalità, fra il 1897 e il 1921 gli italiani rappresentavano circa il 2 per cento della popolazione della provincia di Kerch. Dopo la rivoluzione d’ottobre cominciò la crudele repressione comunista. A partire dal 1939 agli stranieri fu imposta la cittadinanza sovietica. Con la collettivizzazione gli agricoltori italiani furono costretti a conferire le loro proprietà a un kolchoz intitolato a Sacco e Vanzetti, in onore dei due anarchici giustiziati negli Stati Uniti, costituito da Anselmo Marabini, che nel 1921 era stato con Antonio Gramsci uno dei membri del primo comitato centrale del Pci. A indottrinarli arrivò Paolo Robotti, il famigerato cognato di Palmiro Tognatti, rifugiato in Urss. Il suo primo atto fu la chiusura della chiesa cattolica che era stata costruita nel 1840. Il vescovo Aleksander Frison fu imprigionato dal 1929 al 1931, nel 1935 venne arrestato definitivamente, accusato di spionaggio, condannato dopo un processo farsa e fucilato a Mosca il 20 giugno 1937. Anche il fratello di Giancarlo Pajetta, Giuliano, esponente del Pci, soggiornò nel 1934 fra gli italiani di Kerch. Molti anni dopo, uscito vivo dal campo di concentramento di Mauthausen, non risulta che si sia mai preoccupato di sapere che fine avessero fatto quei suoi connazionali rinchiusi nei lager russi».
Avrà pensato che loro erano di sicuro morti.
«Invece in Kazakistan vivono ancora 500 italiani, figli dei pochi sopravvissuti alla deportazione staliniana. Don Edoardo Canetta, un sacerdote milanese da vent’anni missionario nella capitale Astana, ha scoperto che gli archivi del ministero degli Esteri custodiscono 800 schede di italiani morti a Karaganda, scritte in cirillico, che nessuno ha mai consultato. Giuliano Pajetta è deceduto nel 1988. Avrebbe avuto tutto il tempo per occuparsene».
Lei che cosa fa per gli italiani di Crimea?
«Piccole cose. I panettoni a Natale, i libri in italiano. Non vogliono soldi. Mi hanno chiesto i tricolori, perché ne avevano solo un paio con lo stemma sabaudo. E anche i rosari. La chiesa dedicata all’Assunzione di Maria fino al 1992 era stata adibita dal regime comunista a magazzino. Ora ci sono due nicchie vuote ai lati dell’altare. Vorrebbero che gli mandassi una statua della Vergine e una di San Nicola il Pellegrino. È il patrono di Trani, il paese della Puglia da cui partirono molti dei loro antenati. Lo festeggiano il 2 maggio. Ho già chiesto il preventivo a una ditta laziale. Il parroco, don Casimir Ludovik Tomasik, è polacco. Per la prima volta ha potuto celebrare nella loro lingua col messale romano che gli ho spedito dall’Italia».
S’accontentano di poco.
«Quando celebrano il loro patrono, all’inizio e alla fine della manifestazione intonano il Va’ pensiero di Giuseppe Verdi, che nel Nabucco viene cantato dagli ebrei prigionieri in Babilonia. Il loro più grande desiderio è l’Italia. I vecchi vorrebbero vederla almeno una volta prima di morire, ma non hanno certo i soldi per il viaggio, né osano chiederli. Sognano di andare in pellegrinaggio dal Papa. Videre Petrum. Bisogna capirla, la religiosità slava. Non è come la nostra. Dieci giorni fa ero a Gerusalemme e osservavo un gruppo di fedeli dell’Est in visita al Santo Sepolcro. Non s’inginocchiavano: si prostravano a terra, con tutto il corpo».
L’Italia che cosa fa per gli italiani di Kerch?
«Niente. Lei pensi che fino a dieci anni fa non potevano neppure comprarsi un semplice dizionario russo-italiano o italiano-russo. Avrebbero diritto allo status giuridico di deportati. La Germania e la Romania l’hanno fatto riconoscere alle proprie minoranze in Crimea. Noi no. A Kerch c’è un monumento ai deportati, due ruote di un carro merci su un binario morto, con i nomi di tutte le etnie che vennero sterminate da Stalin. Manca quella italiana. I nostri compatrioti il 29 e 30 gennaio di ogni anno ricordano i loro cari inghiottiti nei lager del Kazakistan gettando centinaia di garofani rossi nel Mar d’Azov. Uno spettacolo tristissimo e commovente. Io ho lavorato tre anni e mezzo in Inghilterra e due anni in Francia. So che cosa significa essere italiano in una terra che non conosci. Solo da straniero capisci che cos’è la nostalgia».
Chissà se a Kerch celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia.
«Tutti i giorni. Fra loro hanno costituito un fondo di solidarietà intitolato alla regina Elena del Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III e madre di re Umberto. Hanno avuto più dal Regno d’Italia che dalla Repubblica. Dal 1992 al 1997 l’ambasciata d’Italia in Ucraina ha ricevuto 47 domande di riottenimento della cittadinanza italiana: solo due sono state accettate. Il professor Giulio Vignoli telefonò al nostro ambasciatore a Kiev per sollecitare interventi a favore degli italiani di Crimea: un funzionario gli disse al telefono che era “un illuso”. Giulia Giacchetti Boico da anni scrive regolarmente all’ambasciata e per anni non ha mai ricevuto risposta. Finalmente a Natale del 2003 le arrivò una cartolina con gli auguri stampati in inglese. Nel 2007 un altro biglietto, sempre in inglese, con l’aggiunta di una frase in italiano scritta a mano: “Ringraziamo per gli auguri”. È già un progresso. Ma non eravamo il Paese della Società Dante Alighieri? Quando s’incontrano, gli italiani di Kerch recitano a memoria le poesie di Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale. Si studiano ancora in Italia?».
Perché s’è preso questo impegno?
«Potrei
(528. Continua)
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