G li esperti di demografia mettono paura. Il tema dovrebbe finire immediatamente nell'agenda dei politici responsabili. In sintesi, come potete leggere in queste pagine, l'Italia rischia di implodere a causa della bassa natalità; l'Europa intera invecchia rapidamente; l'Africa invece esplode di gioventù. Difficile fare ipotesi a lungo termine ma sembra sensato, per non dire sicuro, che in un futuro molto vicino, un paio di miliardi e mezzo di africani guarderanno 450 milioni di europei dall'altra parte del Mediterraneo. L'immigrazione di massa, per ora, ha trovato un argine proprio nelle distanze stabilite dal mare e dal deserto del Sahara. Se il territorio tra Africa e Europa non avesse soluzione di continuità, staremmo già facendo i conti con un'emergenza senza precedenti nella storia del nostro Continente.
Gli slogan lasciano il tempo che trovano: «viva l'accoglienza» e «la pacchia è finita» non sono certo soluzioni praticabili. Guardiamo l'Europa. Il Belgio si trova a gestire enormi problemi di integrazione, resi ancora più complessi dai numeri (...)
(...) dell'immigrazione. La Francia non è messa molto meglio ma ha varato programmi di sostegno alle famiglie, col chiaro intento di impostare una politica di ampio respiro sulla natalità. In Italia tutto tace. Affrontare i problemi non è la nostra specialità. I governi (tutti) hanno di solito vita breve e dunque i partiti campano principalmente di propaganda. Da noi sostenere le famiglie suona male, ci ricorda il fascismo e dunque lasciamo perdere. Peccato sia un colossale autogol.
I sostenitori del «barrichiamoci in casa» non tengono conto di un fatto semplice: è impossibile, visti i numeri in campo. I sostenitori del «ci pagheranno le pensioni» non tengono conto di un fatto altrettanto semplice: i giovani immigrati riequilibrano gli effetti della denatalità, ma come ricorda Antonio Golini nell'intervista in queste pagine, un popolo è fatto anche di cultura e storia: «Se una popolazione invecchia e perde la sua vitalità alla fine fatica anche a trasmettere i suoi valori ai nuovi arrivati. Rischia di essere sostituita e non di integrare». Cosa risponderemo quando, come accaduto in Gran Bretagna, i musulmani chiederanno l'istituzione delle corti islamiche che giudicano secondo la sharia e non secondo la legge dello Stato?
Meglio dunque ripassare i fondamentali della democrazia liberale, ammesso che abbia ancora un significato per noi. Meglio rispettare il cristianesimo che ha avuto un ruolo determinante per l'intera Europa. Sbaglia dunque chi irride i movimenti «identitari» come fossero roba per trogloditi. Lo sono soltanto quando la ricerca delle proprie radici sfocia nel provincialismo, nella retorica dell'insuperabile bellezza italica (della quale non abbiamo alcun merito), nella autarchia culturale che di solito nasconde una colossale ignoranza di quello che accade a Chiasso.
In questi giorni esce Italia! Storia di un'idea (Oaks edizioni) di Ettore Rota. È un libro affascinante e mastodontico uscito negli anni Trenta ad opera di un professore dell'università di Pavia, Rota appunto, specialista negli studi settecenteschi. L'autore rintraccia nei testi letterari anteriori all'Unità le ricorrenze del termine «Italia» al quale scrittori come Francesco Petrarca, Niccolò Machiavelli e Giacomo Leopardi hanno dato significati diversi. Certi però che l'Italia esistesse nonostante la divisione politica.
Cosa siamo dunque: una lingua, una variante mediterranea della democrazia anglosassone, gli eredi lontanissimi di un impero, il Paese che ospita il Vaticano, una repubblica fondata sull'antifascismo ma non sull'anticomunismo, una terra tuttora divisa e segretamente nostalgica delle antiche autonomie? La discussione è aperta ma un risposta, magari molto articolata, sarà meglio trovarla.
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