«Lasciai la mia Istria: da più di 70 anni mi sento senza patria»

Racconta la diva: «Le ferite degli altri mi toccavano nel profondo e mi chiedevo: perché faccio questo squallido lavoro nel cinema?»

Enrico Groppali

Lei dell’Istria ricorda le notti d’estate col mare che la chiamava sotto il cielo stellato. «Non mi ammoniva con le parole», confessa. «Al loro posto, mi inviava dei suoni cupi e ovattati che, tanti anni dopo, mi pareva di riascoltare nel silenzio della mia casa ai Parioli e persino in quel deserto di nome Hollywood. La voce del mare ticchettava come l’alfabeto Morse e, durante il sonno, mi si insinuava sotto pelle torturandomi come la corda di un violino quando si spezza. “Perché mi hai lasciato?”, diceva. Per aggiungere subito dopo: “Cos’hai avuto in cambio?”. E io non sapevo che cosa rispondere perché l’avevo tradito il mare della mia Istria, e laggiù a Pola nessuno mi aspettava più». L’italiana in esilio di nome Alida Valli, denunciata all’anagrafe come Alida von Altenburger, figlia unica e beneducata del barone Gino di Markenstein Freuenberg, docente di filosofia di origine viennese, non fa mistero di quegli anni lontani. Anzi, ha deciso di parlare. Anche se è perlomeno sorprendente che una bambina, nata il 31 maggio 1921, costretta a lasciare la città natale nei primi mesi del 1930 per trasferirsi coi genitori a Como, ricordi con precisione date, luoghi e avvenimenti della prima infanzia.
«Ricordo tutto, invece», esclama la donna che Visconti impose ai produttori di Senso per il ruolo di Livia Serpieri, la contessa veneta che tradisce la causa dei patrioti per amore dell’occupante austriaco. «Avevo solo due anni», spiega, «quando a Pola scoppiò la polveriera, e io per il contraccolpo ebbi un collasso che mi spinse per tre giorni a rifiutare il cibo. E ne avevo appena sei il giorno che vidi, sul Lungomare, la carrozza dell’ammiraglio Vianello che conduceva a spasso suo figlio Raimondo, il bimbo dai riccioli d’oro che subito corteggiai spudoratamente salutandolo con la manina come una seduttrice in piena regola». Ma questi sono bei ricordi. Il destino con lei è stato clemente risparmiandole ciò che agli istriani è capitato in guerra e, peggio ancora, alla fine delle ostilità con le foibe, l’allontanamento forzato, la confisca dei beni e, spesso, la morte...
Si considera o no una privilegiata la diva dei telefoni bianchi? «Privilegiata, io? Come mi conosce poco. In California, mi sentivo peggio di una profuga o di una perseguitata politica. Le ferite toccate agli altri mi toccavano nel profondo, fin quasi a sentirmene responsabile. Perché faccio questo squallido lavoro nel cinema?, mi dicevo. Perché non sono rimasta nella mia terra ad affrontare gli eventi, a reagire al sopruso?, mi rimproveravo. Avessi almeno fatto la maestra, avessi inculcato fin dall’infanzia ai miei e ai bambini di Pola, l’orgoglio e la dignità di essere italiani invece di perdermi nei filmetti che mi han dato denaro, successo, popolarità a buon mercato, mi ripetevo». Purtroppo questo non l'ha saputo nessuno...
«Nessuno lo sa, perché non l’ho mai detto. E pochi, adesso che son vecchia, mi crederanno. Doveva dirlo allora, penseranno i superstiti, che certe ferite sia pur toccate ad altri trapassano da parte a parte anche gli esuli contagiandoli in modo irreversibile, facendone degli spostati, delle anime erranti che si muovono di continuo senza mai trovar pace». Anche se vivono tra Acapulco e Beverly Hills con puntate a Parigi e un ritorno in grande stile a Roma? «Lei, come tanti della sua generazione, è impietoso anche se, forse, ha ragione. Quante volte, in effetti, avrei potuto tornare in Istria, dare un’occhiata alla casa della mia infanzia, mettere ordine in un passato che mi pesa dentro come un macigno...». Non c’è più andata? «Solo un anno dopo lo scoppio della guerra, mi decisi a rivedere Pola. Carlo Cugnasca, l’uomo che amavo, era morto in un incidente aereo mentre io, sotto la guida di Mario Soldati, recitavo in uno dei film più dolorosi e belli della mia carriera, Piccolo mondo antico. Dove una donna, Luisa, persa la sua unica figlia, smarrisce la ragione e si esilia dal mondo. Piangevo come una vite tagliata durante le riprese, e me la prendevo con me stessa, mi torturavo. Tu non sai più cos’è la finzione e cos’è la realtà, mi dicevo. Sei sicura di piangere la fine di Carlo quando, davanti alla macchina da presa, ti disperi per la fine di Ombretta? mi chiedevo. Ero scissa, divisa, mi pareva di essere un paio di forbici da cui, brutalmente, fosse stata strappata l'altra metà. Per questo, finito il film, tornai a Pola, il luogo dove tutto era cominciato».
E cosa trovò? «Una città ostile, estranea, distante. Con gli slavi che rimproveravano agli italiani di non parlar serbo-croato. In una comunità divisa, disperata, presaga di ciò che le sarebbe toccato: l'angoscia che è peggio della morte e la deportazione che è una condanna a vita». Quando l’ha rivista? «Nel ’57, all’epoca della Grande strada azzurra, il film con Yves Montand». Cos’era cambiato, nel frattempo? «Tutto e niente. Come se la vita, dopo essere emigrata altrove, avesse ceduto il passo al rimpianto che è un segno di morte. Girando sul mare, agli ordini di Pontecorvo, la storia di Squarciò, un misero pescatore destinato a una fine atroce, vedevo ogni giorno, riflesso nella vita del porto, il senso della sconfitta e l’abbandono di ogni speranza». È stata la sua ultima visita? «Qualche anno fa, ci tornai per una fiction con Raf Vallone che è stato il mio addio allo schermo». Tutto era cambiato di nuovo, no? «Sì, perché oramai Pola era croata. Fu allora che mi fecero quell’incredibile proposta». A cosa si riferisce? «I nuovi padroni della mia terra non avevano più nessuno da esibire come eroe nazionale.

Così non gli parve vero di offrire ad Alida Altenburger la cittadinanza onoraria di “artista croata”». E la Valli cosa rispose? «Che troppe volte, come la mia città, avevo cambiato pelle, ma ero nata e sarei morta italiana. Scrivetelo sulla mia tomba».

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