L'epopea di Nick Drake, talento puro e complesso che è stato compreso soltanto dopo la morte

Incise tre grandi dischi tra il 1968 e il 1972 e poi fu stroncato da una overdose di antidepressivi. Ora David Gray, Liz Phair e Ben Harper lo celebrano con un disco tributo

L'epopea di Nick Drake, talento puro e complesso che è stato compreso soltanto dopo la morte
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Oggi il mondo celebra Nick Drake come una sorta di divinità artistica fattasi persona e scesa dall'Olimpo per deliziare l'umanità con la sua arte di difficile comprensione. Da svariati decenni, non si contano i musicisti di mezzo mondo che ne hanno celebrato la grandezza, dichiarando un debito spirituale nei suoi confronti.

Eppure, nei pochi anni della sua attività cantautorale, per la precisione tra il 1968 e il 1972, quasi nessuno si avvide del suo talento. Nessuno tranne l'americano trapiantato a Londra, Joe Boyd, scopritore dei primissimi Pink Floyd e poi di Fairport Convention, John Martyn e Incredible String Band, fra gli altri, e produttore degli unici tre album di Drake: Five Leaves Left, Bryter Layter e Pink Moon. Proprio Boyd, qualche anno fa, mi disse: «Nick era incredibile, un talento cristallino. Nello studio di incisione era la perfezione assoluta. La sua padronanza della chitarra acustica era sbalorditiva. Si sedeva davanti al microfono e ammaliava tutti. Ma la sua insicurezza gli tarpò le ali. Provai a promuoverne l'immagine facendolo esibire in qualche club, ma i risultati furono disastrosi. Di fronte alla gente, si bloccava del tutto. Verso la fine, persino in studio faticava a esprimersi sui suoi livelli. Le ultime volte in cui lo vidi, era la triste controfigura di se stesso».

Sembra che questa sia l'estate di Nick Drake. Il 7 luglio è stato pubblicato il disco tributo The Endless Coloured Ways: The Songs of Nick Drake. Non è la prima volta che qualcuno ne dedica uno al tormentato cantautore inglese, ma, in questo caso, si tratta di un progetto di notevole portata mediatica, peraltro a un solo anno dal cinquantesimo anniversario della sua morte prematura. Il progetto, anticipato da alcuni singoli in edizione limitata, tra cui una versione inedita di Drake del brano di Dylan Tomorrow is a long time, vede la partecipazione di nomi altisonanti come David Gray, Ben Harper, Craig Armstrong e Liz Phair. In passato, giganti del pop britannico come Kate Bush, Paul Weller e Dream Academy avevano dichiarato di essersi ispirati a Nick e, addirittura, pare che The Cure abbiano tratto il loro nome dalla prima strofa di Time has told me, una delle perle del suo primo album, Five Leaves Left: «Il tempo mi ha detto che sei una scoperta rara, una cura inquieta per una mente inquieta». C'è tutta la vita di Drake in queste poche parole.

E, a testimonianza del mai sopito, semmai crescente interesse per Drake anche da parte delle nuove generazioni, nel mese di giugno era uscito Nick Drake: The Life, di Richard Morton, una sorta di biografia definitiva. Non è la prima. Ce ne sono state diverse, scritte persino da autori italiani, affascinati dall'opera e dalla figura di Nick Drake come e forse più dei suoi connazionali. Per esempio, Le provenienze dell'amore (pubblicato prima da Fazi e poi da Elliot) di Stefano Pistolini.

Le luci scintillanti della Swingin' London non si erano certo ancora spente, eppure si fa fatica a immaginare come un ragazzo patologicamente timido, dinoccolato, di una bellezza quasi femminea, potesse trovare il giusto spazio in un ambiente in cui centinaia di band e cantanti facevano a gomitate per un posto al sole. Però, Drake era diverso. Addirittura diverso da uno dei pochi colleghi che hanno potuto dirsi suoi amici: John Martyn. A sua volta sotto l'ala protettiva di Joe Boyd, Martyn tentò a più riprese di coinvolgere Drake con il suo entusiasmo, ma alla fine dovette dichiarare il proprio fallimento. D'accordo, lo stesso Martyn avrebbe avuto problemi di depressione e dipendenze negli anni, ma in quel periodo era al meglio della forma.

Poco importa se, in una notte di novembre del 1974, Nick assunse volontariamente o meno la dose eccessiva di antidepressivi che lo portò alla morte a soli 26 anni. La copia sul suo comodino de Il mito di Sisifo, un saggio di Albert Camus sul suicidio, non può esserne la prova certa.

In fondo, molti aspetti della sua personalità si staccavano dalla figura del musicista inglese tipico e Nick fu sempre accostato a certi chansonnier francesi. Qualche giornale scandalistico del periodo mise in giro la voce che lui e Françoise Hardy, una splendida cantautrice francese poco più vecchia di lui, avessero una storia. La stima era reciproca, ma una relazione pare altamente improbabile.

Drake era da sempre introverso e il suo stato emotivo era sprofondato nella depressione aperta dopo il fallimento commerciale del suo terzo e ultimo album, Pink Moon, da molti considerato la sua gemma. Quel disco non era certo un potenziale album da Top Ten nemmeno al tempo.

Minimalista, se questo orrendo aggettivo ha mai trovato una sua collocazione, Pink Moon rappresenta Nick nudo, accompagnato dalla sua sola chitarra acustica. «Sola» è naturalmente riduttivo: per qualcuno, quella era la forma migliore in cui ascoltare l'intreccio magico, dolce ma mai melenso, malinconico ma talvolta sorridente della sua voce e della sua chitarra.

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