La mafia della prostata stronca primari e malati

Cattedratico si ribella al concorso deciso a tavolino: finisce sotto processo: un dossier esplosivo di 250 pagine. La tragica testimonianza: "Errori mortali occultati in sala operatoria. Un docente era senza laurea"

La mafia della prostata stronca primari e malati

Esiste una mafia della prostata? Sì, esiste, ed è una mafia potentissima. Non potrebbe essere altrimenti in una gerontocrazia come quella del nostro Paese, dove l’autorità politica, giudiziaria, militare, economica e religiosa è incarnata da persone che nella migliore delle ipotesi hanno superato i 50 anni, più spesso i 60, quasi sempre i 70. Ai vertici della cupola vi sono gli urologi, che hanno fra le mani, letteralmente, quanto di più intimo appartenga a un uomo. Depositari di reconditi segreti, testimoni di virilità declinanti, ancore di salvezza in patologie tanto frequenti quanto angosciose, a cominciare dai tumori, sono i medici ai quali i maschi si rivolgono meno volentieri. Perciò conviene farseli amici per la vita. Non è un caso che Giovanni Paolo II ricorresse all’urologo di un ospedale distante 520 chilometri dal Vaticano. O che il riservatissimo presidente della più importante banca popolare italiana, oggi defunto, e il presidente di una catena di quotidiani locali si facessero vedere a cena nei ristoranti soltanto col primario di urologia della loro città. O che Indro Montanelli si fosse fatto operare a Verona, anziché a Milano o a Roma, da un luminare trentino.

La Marsilio sta esaminando un j’accuse allucinante che svela le malefatte di questa mafia della prostata. Come autore della casa editrice, ho potuto leggerlo in anteprima. Ne sono rimasto sconvolto. Per ovvi motivi di esclusiva non mi è concesso riferire i dettagli - nomi e cognomi, località, date - implacabilmente elencati in quello che è destinato a diventare un libro-scandalo di 250 pagine, corredato da 140 fotografie che tolgono il fiato, tutte scattate in ambito ospedaliero.

Autore dell’esplosivo memoriale è un famoso chirurgo. Lo chiamerò professor X. Curriculum eccezionale. È titolare di cattedra universitaria e direttore di una delle più importanti cliniche urologiche del Nord Italia. L’incipit testimonia che sa incidere anche con la penna, oltre che col bisturi: «Fin quando diranno bugie su di me, io dirò la verità su di loro». «Loro» sono: il suo maestro oggi in pensione ma tutt’altro che a riposo, alcuni dei suoi medici, la sua caposala, più vari comprimari. Si sono coalizzati e l’hanno trascinato sul banco degli imputati con le accuse di abuso in atti d’ufficio, interruzione di pubblico servizio e mobbing. Il chirurgo s’è accorto troppo tardi che era lui, in realtà, la vittima designata di un mobbing alla rovescia orchestrato allo scopo di provocarne la morte professionale per via giudiziaria.

Il direttore della clinica è stato annientato perché s’è rifiutato di far vincere il concorso per professore associato a un medico del suo staff che non possedeva i titoli necessari, ma che ciò nonostante in ripetute occasioni aveva affermato: «Quel concorso è il mio concorso!». Il professor X non ha tenuto nel minimo conto il fatto che anche il suo maestro avesse pubblicamente dichiarato che l’«aspirante naturale» e il «candidato naturale» del concorso per associato era il medico poi bocciato.

La qualità scientifica e didattica del raccomandato è risultata nettamente inferiore a quella degli altri concorrenti e ciò a giudizio di una commissione indipendente formata come d’uso da quattro professori universitari esterni eletti su base nazionale. Di qui la vendetta contro il professor X che la presiedeva.
Fra l’altro il candidato scartato era reduce da ben 17 concorsi nelle principali città d’Italia, con poco invidiabili risultati: in 12 non s’era nemmeno presentato, in 3 s’era ritirato, in 2 lo avevano dichiarato non idoneo.

Il professor X è stato massacrato dalla mafia della prostata. Condannato a una lunga pena detentiva e al pagamento di una provvisionale stratosferica, non è finito in galera solo perché è incensurato e nel frattempo ha interposto appello. Nel suo caso la giustizia ha funzionato egregiamente: indagini a tappeto; decine di persone interrogate; confronti all’americana; spazio mediatico solo alle tesi dell’accusa; mai un articolo di giornale sul suo interrogatorio, sulle sue ragioni, sulle testimonianze a suo favore; 13 udienze in appena 7 mesi e subito la sentenza. La conclusione era sorprendentemente già scritta nel primo servizio apparso su un quotidiano locale quando fu emesso l’avviso di garanzia: pubblicato nel settembre 2006, anticipava la requisitoria che il pubblico ministero avrebbe pronunciato soltanto tre anni dopo.

È un miracolo che il professor X, noto come una persona corretta ed equilibrata, abbia mantenuto i nervi saldi. Solo un uomo di spessore morale poteva sopportare una prova tanto aspra e alla fine trovare dentro di sé le forze per mettere nero su bianco un dossier nel quale i concorsi truccati, le carriere fatte e disfatte a tavolino, i pazienti rovinati in sala operatoria, i medici che percepiscono lo stipendio senza presentarsi in reparto, rappresentano il meno. A lasciare interdetti sono gli effetti perversi che una fitta ragnatela di amicizie è in grado di determinare: nel caso specifico, una macchinazione che ha distrutto la reputazione del professionista, reo di non essersi piegato allo strapotere, tuttora intatto, del barone della medicina che lo ha allevato e voluto come proprio successore sulla cattedra universitaria. Nel loro ultimo colloquio in presenza di un testimone, tre anni fa, il maestro, uomo di poche parole, aveva concluso lapidario: «Non è il primo e non sarà l’ultimo esempio di parricidio». Sentendosi rispondere: «Vi sono altrettanti esempi di padri che uccidono i figli».

L’anziano urologo che divora le proprie creature - lo chiamerò professor Y - è nato in un paesino della Sicilia. Potrebbe sembrare una trascurabile casualità geografica. Sennonché di questo stesso paesino sono originari: 1) il procuratore capo in servizio all’epoca dei fatti; 2) un maresciallo dei carabinieri, in passato fedele collaboratore del magistrato, che s’è molto interessato all’andamento del concorso e che trascorre le sue giornate battendo i corridoi dell’azienda sanitaria per raccogliervi confidenze, delazioni, lettere anonime; 3) un amico del professor Y strettissimo parente di uno dei tre giudici del collegio che ha condannato il professor X; 4) la famiglia del medico che ha vinto il concorso. Da notare che la prima persona presentata dal professor Y al professor X fu il compaesano carabiniere: «Questo è il maresciallo (...). Ricordalo bene, perché qualsiasi problema tu abbia lui può risolverlo». S’è visto. Allora andavano d’accordo, maestro ed erede.

A proposito di Parentopoli. Il professor Y aveva deciso fin dal 1990 chi gli sarebbe succeduto sulla cattedra e in clinica: suo cognato. Purtroppo per lui, una vicenda imprevista gli ha mandato a pallino il piano: il predestinato ha avuto una crisi mistica, che lo ha portato non solo a disinteressarsi della famiglia e del lavoro, ma anche a mettere a repentaglio la salute dei malati e il buon nome dell’ospedale. Infatuatosi d’un santone che si spaccia per guaritore, ha smesso di operare, ha abbandonato l’attività ambulatoriale, ha cominciato a distribuire immaginette votive agli ammalati e ai loro parenti (e persino agli specializzandi e agli studenti di medicina durante le lezioni), ha ripetutamente invitato i familiari di pazienti con patologie neoplastiche o malformazioni congenite a rivolgersi al guru piuttosto che ricorrere alle cure dei chirurghi. Contro di lui, essendo pur sempre il cognato dell’influente professor Y, non è mai stato preso alcun provvedimento, nonostante si presentasse in reparto solo occasionalmente e solo per connettersi a siti religiosi su Internet. Ciò significa che ha continuato per anni a percepire lo stipendio senza prestare servizio: non operava, non visitava, non faceva il «giro» degli ammalati.

Ai tempi d’oro, il professor Y era impegnatissimo in una casa di cura privata. Di solito vi si tratteneva fino alle 10 o alle 11 del mattino. Intanto in ospedale i suoi medici lo aspettavano sotto il vigile controllo della caposala, poi diventata uno dei testimoni d’accusa contro il professor X. Nel suo libro quest’ultimo documenta inoltre come il maestro sia «sempre stato molto vicino al mondo militare: usualmente un’auto dell’Esercito lo accompagnava in aeroporto per i suoi viaggi privati e lo riportava a casa al ritorno». Il professor Y, benché fuori ruolo, s’è tenuto per quattro anni lo studio che aveva occupato da monarca assoluto per un quarto di secolo. Nei Paesi europei, quando un direttore raggiunge i limiti d’età, saluta e lascia definitivamente il reparto. Non esiste scappatoia che gli consenta di continuare l’attività assistenziale.

Ma come funzionava la clinica quand’era diretta dall’illustre cattedratico oggi a riposo? Leggiamo il memoriale: «Accerto che un professore a contratto della scuola di specializzazione (di cui era direttore in quel momento il professor Y) non è laureato! Appurato il fatto attraverso un colloquio col diretto interessato, lo invito a dimettersi per motivi familiari e a prendersi almeno una laurea breve. Scopro che ci sono irregolarità gravi negli atti operatori relativi ai pazienti privati del professor Y che vengono operati in endourologia. Il professor Y non ha mai fatto endourologia, branca che richiede una specifica competenza, perciò i suoi pazienti privati venivano operati dal dottor Z, anche se sull’atto operatorio figurava come chirurgo il professor Y». Inutile dire che il dottor Z è il candidato bocciato al concorso. «D’altro canto il professor Y operava per interposta persona pazienti ricoverati in regime ordinario che secondo la normativa vigente non avrebbe potuto operare. Ma tant’è: per il dominus si chiude un occhio, e spesso tutt’e due».
In sala operatoria non accadeva solo questo. Nel j’accuse sono elencati episodi terrificanti: «Paziente operato dal professor Y in endoscopia per una resezione di prostata. Un’erezione improvvisa impedisce l’intervento. Usualmente in simili casi si inoculano alfastimolanti diluiti nei corpi cavernosi del pene. Il professor Y iniettò una fiala intera senza diluizione, provocando una grave crisi ipertensiva con conseguente emorragia cerebrale. L’incidente fu interamente coperto. Paziente operata dal dottor (...) in endourologia di chirurgia percutanea per calcolosi renale: morta per intossicazione d’acqua per un difetto di tecnica. Caso indifendibile. Eppure il conseguente strascico giudiziario, grazie al professor Y, si concluse a sfavore della vittima, tanto che la sentenza è riportata su Internet come esempio di ribaltamento della verità». E ancora: «Nefrectomia parziale su paziente privato (dozzinante). Un chirurgo seziona accidentalmente l’uretere lombare, lo “sistema” con una uretero-anastomosi ma non referta l’evento sull’atto operatorio. Il paziente, tuttora ignaro - temo - dell’accaduto, sviluppa una stenosi serrata dell’uretere che richiede plurimi trattamenti successivi. Insomma, una sequela agghiacciante, è l’unico termine appropriato, di complicanze maggiori, sulle quali nessuno ha fiatato, tanto meno la caposala del gruppo operatorio».

Il professor X è stato riconosciuto colpevole di abuso in atti d’ufficio per aver allontanato temporaneamente dalla sala operatoria il dottor Z, che dopo la bocciatura al concorso aveva diffamato il suo superiore e il reparto. Dalla campagna denigratoria al procedimento penale, il passo è stato breve. «Ma se in un processo quattro testimoni dicono che ci sono stati disagi, lamentele, attese, senza ricordare con precisione quando, come e quante volte, e se questi episodi non trovano alcun riscontro in documenti pubblici come la cartella clinica degli ammalati, l’atto operatorio e la scheda anestesiologica, le impressioni di tali testimoni costituiscono una prova? E qualora la risposta fosse affermativa, tale prova mantiene il suo valore anche se altrettanti o più testimoni negano i presunti eventi?», si chiede il condannato nel suo libro. È precisamente ciò che è accaduto nell’aula del tribunale. Il pubblico ministero, nella sua requisitoria, anziché circostanziare le accuse s’è limitato, in assenza delle citate prove documentali e in presenza delle sole testimonianze generiche, a parlare di un «coro di anime» sollevatosi contro l’imputato, aggiornamento poetico del «vox populi, vox Dei». Arrivando a concludere che costui non ha «per nulla a cuore l’interesse dei malati».

Adesso il destino del professor X è nelle mani del direttore generale dell’azienda ospedaliera, che ha già avviato un procedimento per «l’eventuale allontanamento del docente universitario». Il direttore generale ha ben presente che le cliniche di mezzo mondo farebbero carte false per assicurarsi mani e testa del professor X. Ma ha anche ben presente un’altra cosa: il Pm che ha sostenuto l’accusa contro il professor X è, guarda caso, lo stesso che qualche anno fa ha avviato un’inchiesta sulla realizzazione di una struttura ospedaliera. A quanto pare il fascicolo sulla congruità e sulla trasparenza delle procedure adottate per l’appalto sarebbe stato aperto in seguito a una segnalazione del maresciallo camminatore compaesano del professor Y. E a tutt’oggi non è dato sapere quale direzione abbiano preso le indagini.

A questo punto il lettore si chiederà perché il professor X non abbia smascherato a tempo debito la mafia della prostata, come mai abbia tollerato le storture di cui era venuto a conoscenza. La risposta è leale: «Nella vita immagini sempre che certe cose possano accadere solo agli altri. Se stavolta nel tritacarne ci sono finito io, qualcosa vorrà pur dire.

Si vede che il destino doveva assegnarmi un compito: far sì che i principi di prudenza, diligenza e perizia si applichino non solo ai medici ma a tutti coloro, magistrati in primis, dalle cui decisioni dipendono molte vite. Non mi sottrarrò al mio destino».
Quando la coscienza bussa alla porta, puoi far finta di non essere in casa. Il professor X le ha aperto.

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