Manifesto del libero cibo Come mangiare felici senza mode, leggi e guru

Il proibizionismo alimentare è un'abbuffata di divieti e confonde il gusto con il giusto A ciascuno la propria dieta: è un aspetto essenziale della nostra personalità

Manifesto del libero cibo Come mangiare felici senza mode, leggi e guru

Un fantasma si aggira per l'Europa, il fantasma del proibizionismo alimentare. Da anni anche in Italia attraversa i muri dei ristoranti, dei supermercati, delle macellerie, delle salumerie e delle formaggerie, delle cucine domestiche e delle mense scolastiche, annunciato da un lugubre sferragliare di catene. Negli ultimi tempi il fantasma si è materializzato in una lunga serie di prescrizioni, e le catene non sono più tanto metaforiche: multe o, nella migliore delle ipotesi, riprovazione vengono comminate a chi si ostina a servire nei locali o a vendere nei negozi cavallo, coniglio, cacciagione, determinate frattaglie, formaggi di malga, vini troppo o troppo poco alcolici, vero assenzio, nocino artigianale... Chi dispone di antenne lunghe sa che perfino la filiera del maiale è, in prospettiva, a rischio. E che in sempre più numerosi ambiti se un ortaggio non è certificato bio, fosse pure una lenticchia coltivata a mani nude da un vecchio contadino di Altamura, rischia l'ostracismo.

Il proibizionismo alimentare consiste, in sintesi, nel voler impedire agli altri di mangiare quello che a noi non piace, quello che noi non riteniamo giusto mangiare. È il gastronomicamente corretto, per molti versi una variante del politicamente corretto e quindi un conformismo fattosi oppressione. Così come la correttezza politica impoverisce il vocabolario, impedendo di pronunciare un gran numero di parole, la correttezza gastronomica impoverisce il ricettario, espellendo dal novero dell'edibile un gran numero di ingredienti e di piatti. In nome della libertà e della varietà alimentare che da sempre è ricchezza, sia culturale che economica, dell'Italia, scrivo questo urgente manifesto.

Primo. La libertà alimentare sia considerata un aspetto essenziale della libertà tout court : se è vero, come dice Feuerbach, che l'uomo è ciò che mangia, impedire a un uomo di mangiare ciò che desidera significa impedirgli di essere se stesso.

Secondo. La libertà alimentare sia tutelata dalla Costituzione nell'ambito dell'articolo 21, ossia come libertà di espressione: cibarsi di trippa oppure di tofu non è solo ingurgitare proteine, è anche esprimere una visione del mondo.

Terzo. Si chieda alle religioni di non interferire nella preparazione dei piatti di chi professa religione diversa o religione alcuna. Col declino del cristianesimo, prima e unica confessione concedente assoluta libertà alimentare (leggasi Marco 7,19), e la crescita dell'islamismo, una delle innumerevoli religioni che di proibizioni alimentari campano, anche in Italia la questione si è fatta cruciale.

Quarto. Ognuno si goda la propria ideologia (ambientalismo, animalismo...) nell'intimità della sua casa, senza pretendere di decidere, attraverso leggi, la dieta altrui. Chi vuol essere fruttariano o crudista non perseguiti il vicino che va matto per la coda alla vaccinara, o che le pere le preferisce cotte.

Quinto. Denaro pubblico non venga speso per privilegiare un gastrogruppo rispetto a un altro. Non succeda più che un Comune come quello di Parma, capoluogo di una provincia che di salumi vive, siccome in balìa di un sindaco grillino sponsorizzi un festival vegano.

Sesto. Le liberalizzazioni non devono riguardare solo taxi e farmacie. Anche nelle cucine si introduca il concetto di libera intrapresa. Sia consentito ai cuochi la produzione artigianale di liquori e vasetti di marmellata (pratiche oggi illegali o fortemente osteggiate dalle Asl): decideranno i clienti se sono più o meno buoni dei rispettivi prodotti industriali.

Settimo. La libertà alimentare è anche libertà di scelta, non doversi assoggettare a menu sempre più uguali. Si avvisino i signori ristoratori che il pacchero non è l'unico formato di pasta, la capasanta non è l'unico mollusco, il lime (o limetta: dillo in italiano!) non è l'unico agrume.

Ottavo. Se ti piace il vino che sa di aceto, de gustibus . Ma non definirlo vino vero, vino biologico, vino naturale, perché sarebbe come dire che tutti i vini che non sanno di aceto sono falsi, sintetici, prodotti in raffineria. Una calunnia, anzi: un'idiozia.

Nono. Il gusto non venga sopraffatto dal giusto (e poi che cos'è, in campo alimentare, il giusto?).

Carlo Petrini ha tanti meriti e la colpa di avere aperto le cateratte del moralismo gastronomico: il chilometro zero, il cibo etico, la sogliola solidale, il surgelato sostenibile... Tutti diktat pseudoscientifici, e che fanno passare l'appetito.

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