Sulle vicende palermitane che mi riguardano e che hanno trovato ampia eco sulla stampa avevo deciso di mantenere quello che consideravo un doveroso e rispettoso silenzio. Ma proprio il modo in cui la stampa si è occupata della mia deposizione di ieri a Palermo mi spinge a non tacere più. Vorrei raccontare una storia che qualcuno chiamerà di giustizia ma che rappresenta l’esatto contrariodi quella che io ritengo dovrebbe essere la giustizia. Niente di nuovo, per carità e purtroppo, ma può forse essere utile apprenderla direttamente da chi l’ha vissuta sulla propria pelle, per capire che questa degenerazione non è un problema di singoli, pochi o tanti che siano, ma un problema di tutti, un problema che mina le fondamenta del vivere civile. Ecco il risultato di vent’anni di teoremi giudiziari: un veleno che intossica da troppo tempo l’intero Paese.
La storia è questa. Il 9 luglio vengo convocata dalla Procura di Palermo come «persona informata dei fatti». Peccato che i presunti fatti su cui dovrei essere informata li apprendo solo, qualche giorno dopo e con grande abbondanza di dettagli, dai giornali. Ma parlare di «fatti» è totalmente fuori luogo: paginate e paginate di falsità e insinuazioni per qualificare le quali è perfino difficile trovare gli aggettivi giusti.
Ma perché la Procura di Palermo è interessata a sentire proprio me su questo cumulo di assurdità? Sempre dai giornali apprendo che si parla di un conto cointestato mio e di mio padre, da cui sarebbero partiti due dei bonifici indirizzati a Dell’Utri e a suoi famigliari. Io però di questo conto non ricordo neppure l’esistenza. Faccio le verifiche, e in effetti emerge che è esistito fino a sette anni fa, anche se non ne ho mai avuto la disponibilità e a mia memoria non l’ho mai utilizzato.
Che cosa devo andare a dire allora alla Procura di Palermo? Che di questo conto non ricordo assolutamente nulla, dei bonifici alla famiglia Dell’Utri tantomeno? Che peraltro non trovo nulla di strano nel fatto che mio padre senta, direi, il dovere etico, oltre che il desiderio, di sostenere un prezioso collaboratore il quale, all’apice del successo professionale, è improvvisamente sprofondato in un incubo che da quasi vent’anni lo costringe a trascinarsi da un tribunale a una Procura, un incubo che gli ha rovinato non solo la carriera ma anche la vita, un incubo che è guarda caso comparso in contemporanea con la discesa in campo di mio padre?
È la pura verità. Ma per dire questo è necessario che io debba andare a Palermo, per sentirmi chiedere informazioni che senza alcuna fatica e con molto minor dispendio di energie avrebbe potuto domandarmi un incaricato della Guardia di Finanza di Milano? È necessario che venga interrogata da un gruppo di pm antimafia, e soprattutto che debba espormi a quell’efficientissima gogna mediatica che non riposa mai? Comunque vado non appena possibile, addirittura in anticipo. Contesto, su indicazione dei miei legali, la possibilità di essere ascoltata, per svariate e rilevanti ragioni. Successivamente rispondo a tutte le domande (una ventina di minuti complessivamente), riparto senza dire nulla- rispettosa del segreto di indagine - alla stampa che qualcuno mi ha fatto trovare schierata in forze all’uscita.
Risultato? Nel giro di poche ore mi vedo precipitata nell’inferno mediatico. Nei tg della sera la mia foto si mescola con quelle dei boss e di orribili stragi, tutto tenuto insieme da una parola che mi mette i brividi solo a pronunciarla: mafia. Peggio avviene con i giornali di stamane. Ben forniti dai soliti noti «ambienti giudiziari» di mezze verità e bugie intere, mi descrivono come una teste evasiva o che aveva l’unica preoccupazione di evitarsi problemi.
Naturalmente, basta leggere il verbale della mia deposizione (a quando le fotocopie da parte degli «ambienti giudiziari»?) per rendersi conto che non è vera né l’una né l’altra cosa. Ma intanto il marchio è impresso, la trappola infernale è scattata: ovviamente non puoi dire di sapere cose che non sai, ma se dici di non saperle ecco che diventi sulla stampa una teste «vaga», con tutti i peggiori sottintesi possibili.Eccola qui l’alternativa folle, assurda, inaccettabile: o menti, raccontando quello che da te si vorrebbe sentire anche se non è vero, o dici la verità e allora cominciano a circondarti il sospetto e le insinuazioni. E ricordiamoci che stiamo parlando di quanto c’è di più terribile, la mafia.
È evidente che anche questa storia, come tutte quelle che ci scagliano addosso da vent’anni, finirà nel nulla.Con l’unico risultato possibile: nessun collegamento con le cosche, assoluta correttezza e trasparenza. Ma non è questo che interessa.L’unico processo che interessa è quello che viene fatto ogni giorno sulla stampa, convocando testimonibuoni a ingolosire i telegiornali della sera, trasformando pentiti veri e falsi in icone, facendo filtrare quello che fa comodo, e poco conta se è totalmente falso. Un processo dal quale è impossibile difendersi, perché neppure la verità più conclamata in un’aula può eliminare completamente il fango che ti hanno tirato addosso. Che cosa ha a che vedere tutto questo con la giustizia? A che cosa servono le regole e le norme approntate proprio per evitare soprusi se, anche quando vengono formalmente rispettate, basta di fatto un articolo di giornale ad aggirarle e vanificarle? E questa mostruosa macchina è compatibile con il funzionamento della democrazia?
Tutto ciò che è accaduto e sta accadendo dovrebbetrovare opportune valutazioni nelle sedi competenti.
Ah, un’ultima precisazione: naturalmente io non ero e non sono accusata di nulla, i pm di Palermo mi hanno convocato come «persona offesa», come presunta vittima. Insomma, per «tutelarmi ». Si è visto come.
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