«Mia cara Albina» D’Annunzio a tavola

Messaggi scherzosi e licenziosi per ordinare cene ufficiali o manicaretti da servire alle tante visitatrici che rallegrarono i suoi ultimi anni

Delle tante donne che circondarono Gabriele D’Annunzio, ne condivisero per breve o lungo tempo la vita e il talamo, o soltanto sfiorarono entrambi, Albina Becevello è la più umile. Una figura silenziosa e modesta, di cui resta solo una fuggevole traccia nella Vita di Gabriele D’Annunzio di Piero Chiara. Albina Becevello o «Suor Albina» o «Suor Intingola» era la cuoca del Vittoriale. Aveva conosciuto D’Annunzio a Venezia ed era entrata al suo servizio, seguendolo poi nell’ultimo rifugio di Gardone dove rimase - a nutrirlo e coccolarlo - fino alla morte del poeta, avvenuta il 12 settembre 1938.
Albina Becevello veniva da un borgo del Trevigiano, Paese. In realtà era nata a Carbonera nel 1882 e si chiamava Lucarelli. Nulla si sa dei suoi genitori. A otto anni la piccola orfana era stata accolta nella casa dei Becevello, una famiglia di mezzadri, che in seguito l’aveva affiliata. Si ignora che aspetto avesse, probabilmente non era particolarmente bella perché fra le tante qualità che il «Priore» del Vittoriale le riconosce, non si accenna mai alla sua avvenenza fisica. Non era sposata e il suo parente più vicino era un fratello, rimasto invalido nella Grande Guerra, che spesso Albina si recava a trovare, portandogli degli aiuti in denaro che generosamente il Comandante le faceva avere «per il nostro caro mutilato di Paese».
Albina è un personaggio che vive della luce riflessa dei cento e cento biglietti che il poeta - inguaribile grafomane anche nell’intimità domestica - le faceva recapitare nella cucina del Vittoriale dove Albina regnava sovrana sopra un drappelletto di domestiche e inservienti: Ines, Guerino, Letizia, Mariona, Alda, Rosetta, Gigi, Paolo, pur essi destinatari delle mance del poeta in occasione di giorni di festa o delle ricorrenze di cui Gabriele non si dimenticava mai, come la Beffa di Buccari o il Volo su Vienna.
Alla «Santa Cuciniera» D’Annunzio scriveva su semplici fogli di carta bianca ma talvolta anche su carta intestata recante i suoi motti preferiti: quello della Squadra di San Marco («Ti con nu, nu con ti») o quello del Gruppo di Squadriglie Primo («Più alto e più oltre») o il celebre «Io ho quel che ho donato» oppure ornati dal disegno del pugnale che squarcia la ragnatela unito alle parole «Ardisco non ordisco».
È un D’Annunzio inedito, quello che si rivela nei messaggi ad Albina, come inediti sono i cento e cento fogli «di cucina» custoditi negli archivi della Fondazione del Vittoriale. Un padrone di casa del tutto fuori dalle regole, capace di trasformare in un piccolo capolavoro letterario il semplice ordine per una cena importante come per un convivio molto intimo. «Cara Albina - scrive l’8 marzo 1932 - più tardi avrò una donna bianca sopra un lino azzurro. Le donne bianche dopo gli esercizi difficili, hanno fame. Ti prego di preparare alla Mariona un piatto freddo col polpettone magistrale... La settimana prossima cominceranno i lavori per la Cucina. Avrai una Cucina di marmo e un trono di fuoco».
D’Annunzio usa il suo solito stile alato ma, con il personale di casa, si concede spesso licenze, prende in giro se stesso «poaro vecio», scherza sull’organizzazione domestica, sempre puntando a trasformare la banalità del quotidiano in un avvenimento estetico, che siano le scherzose e licenziose rime in dialetto veneto poste in calce a un biglietto («Resister no posso/ Co vedo un bel muso. Co vedo un bel buso,/ Me trovo innamorà») o le lodi sperticate alla cuoca per un piatto ben riuscito: «Dilettissima Suor Albina, tu avevi superato tutti i grandi cuochi moderni. Con la perfezione del “pollo di Beauvais” tu hai superato i più famosi cuochi antichi. Ieri, entrando in me, quel pollo ridiventava angelo, spiegava le ali e si metteva a cantare le tue lodi: “Laudate, Ventriculi, Sanctam Albinam, coquam excelsam!».
I gusti gastronomici di D’Annunzio sono semplici. I dolci esotici, i vini speciali, i cioccolatini, i frutti rari, i bonbon sono destinati ai riti di seduzione delle belle ospiti che il Vate accoglie nella stanza della Musica, fra sete orientali e lampade colorate (il 22 agosto 1931 prepara un’accoglienza accattivante per «una foresta che mi è capitata sotto gli artigli»). O alle “badesse” come la moglie Maria di Gallese, ricevute nella sala da pranzo progettata e arredata dall’architetto Gian Carlo Maroni che presiede agli interminabili lavori del Vittoriale. Per la sua tavola personale Gabriele preferisce carni fredde, cannelloni (di cui va matto), patate fritte, cotolette. Ma cotolette come le sa fare l’Albina, alla quale scrive il 19 aprile 1934: «da alcuni giorni m’è venuta una voglia pazza di certe costolette che tu mi facevi riducendo, a furia di battiture con un pestello di pietra, la carne più sottile di una buccia di banana, d’una crosticina di pane sfornato, d’una fetta di patata fritta, e magari di un’ostia consacrata dall’Arciprete Fava...». Le domestiche invece, in assenza della cuoca, gli avevano servito «costolette unte e bisunte, gonfie come rospi...»
Ma più di qualsiasi manicaretto, Gabriele è goloso di uova. «Mi contento di due uova al tegamino» scrive spesso quando non vuole sovraccaricare di lavoro la prediletta Albina. Se però gli viene servita una frittata, allora è felicità. «Cara Albina - le scrive in una domenica senza data - questa tua frittata, dopo tante altre frittate mediocri, è sublime. Te lo dice un conoscitore, che ha saputo fare le più belle frittate del mondo, cosicché alcune - per testimonianza di quel fesso di San Pietro - sono in Paradiso le raggianti aureole di Vergini martiri, se tu credi alla verginità. Accetta questo tenue segno di riconoscenza».
Come sempre D’Annunzio ama confondere il sacro con il profano, compiacendosi di rivestire di dubbia “santità” situazioni tutt’altro che caste, firmandosi «Il Priore indegno» o «Il Priore in tentazione», «Il Priore in peccato di gola», «il Priore scomunicato», «Il Frate Gentile», «L’innocentissimo e dannatissimo Priore». Ma nei biglietti traspare anche l’affettuosa attenzione per la cuoca, della cui salute si preoccupa costantemente, scusandosi se l’ha fatta andare a letto troppo tardi per una cena, invitandola a non affaticarsi e a prendersi periodi di vacanza. E le propone di farla accompagnare in macchina, con l’automobile del Vittoriale, ribattezzata - manco a dirlo - «la Papessa».
Dal 1922, il soggiorno di Gabriele nella villa di Cargnacco si è andato trasformando sempre più nella reclusione volontaria di un uomo e di un artista consapevole che il suo tempo è ormai finito. E che altro non gli rimane se non una lunga, malinconica rievocazione e ricelebrazione dei tanti momenti di gloria della sua vita «inimitabile». La solitudine ormai lo assedia, nonostante gli onori di cui formalmente Mussolini lo circonda. Talvolta, per superare un momento di malinconia, non gli rimane che Albina alla quale ricorda che fu lei a preparargli «il canestro per la mia colazione di Buccari», la sola che può condividere la sua tristezza a Natale: «Forse tu sai - tu sola - che per me questo è e sempre sarà il Natale di sangue», amaramente ricordando la tragedia di Fiume.
Alla morte del poeta, Albina lasciò il Vittoriale e si ritirò a Brescia nella casa di riposo delle Figlie di San Camillo, dove morì silenziosamente com’era vissuta, il 3 giugno 1940 a 58 anni.

Non aveva portato con sé i bigliettini del Priore da rileggere in solitudine, forse non ne aveva mai neppure compreso fino in fondo la deliziosa arguzia, come quella della filastrocca che le aveva dedicato: «A Suor Albina/ che fa la galantina/ e fa la gelatina/ e fa la patatina/ e fa la minestrina/ e il petto d’Agatina, / tutto alla Buccarina,/ con l’arte sua divina!». L’aveva scritta nel 1923, alla vigilia della ricorrenza della Beffa di Buccari.

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